mercoledì 8 giugno 2011

Memoria del Conpass per l'indagine conoscitiva del Senato della Repubblica sul valore legale della laurea

Introduzione
Si ringrazia, innanzitutto la Commissione e per essa il suo Presidente per l'opportunità offerta e coglie con favore l'iniziativa di sentire il parere delle organizzazioni della docenza universitaria, auspicando un loro più diretto coinvolgimento prima di effettuare scelte fondamentali sui temi dell'università.


Siamo un nuovo soggetto collettivo che nasce con lo scopo duplice di proporre un modello nuovo di università, che vada al di là delle istanze proprie della categoria (pur essendo un'aggregazione di categoria, quella dei professori associati, la più maltrattata dalle ultime riforme), e di dar voce a quella parte del mondo accademico che si impegna giornalmente per mantenere standard di livello internazionale pur in presenza di condizioni al contorno demotivanti e che ritiene importante riaprire quei canali di comunicazione con la società ed soprattutto col mondo politico che non sempre negli ultimi tempi ha dato dimostrazione di saper ascoltare, cogliere e valorizzare tutte le voci, la ricchezza culturale e la pluralità di posizioni del mondo accademico, nel compiere scelte politiche relative all’ Università.


Premessa  
Detto ciò diamo senz'altro indugio risposta ai quesiti formulati dalla Commissione. Ci limiteremo a pochi lampi sugli otto quesiti raggruppati in cinque punti, riservandoci di fare pervenire alla commissione, in tempi ragionevolmente brevi, una nostra più articolata memoria.
Saltiamo anche le premesse generali perché il resoconto della audizioni e la documentazione informativa messe a disposizione dalla Commissione consente di dare per note le fonti che governano il “valore” del titolo di studio; si danno altresì per noti gli scritti principali (ex multis Cassese, Rubele) che hanno discusso il tema.


1.  A parere della Vostra Organizzazione, nei concorsi pubblici, il riconoscimento del valore legale della laurea risulta effettivamente lo strumento più efficace per selezionare i soggetti più preparati?
La laurea – e più in generale il titolo di studio – non ha la funzione di “selezionare i soggetti più preparati” per l'accesso alla p.a., perché questo scopo è assolto dal pubblico concorso. Da  questo punto di vista, la laurea rappresenta una certificazione di un percorso di studi compiuto  con profitto, più o meno variabile, e – soprattutto – su obiettivi formativi omogenei e  contenuti equivalenti , entro i vincoli stabiliti dalla legge.
La stessa considerazione può farsi, più in generale, per l'accesso alle professioni protette, al  pubblico impiego non privatizzato: per es. in magistratura e nella carriera diplomatica, e,  seppure entro certi limiti, per l'accesso alle qualifiche dirigenziali del lavoro pubblico contrattualizzato, poiché come è noto i cc.cc.nn.ll. consentono talvolta di prescindere dal titolo di studio.
Va notato che l’attuale sistema permette di coniugare una notevole flessibilità ed autonomia nella scelta dei contenuti specifici, in grado quindi di venire incontro ad esigenze specifiche di settori disciplinari o del territorio, con una certificazione di sostanziale equivalenza della formazione. L’ esistenza di tale certificazione, costituendo condizione necessaria per la partecipazione a concorsi pubblici, ma non sufficiente per la selezione dei soggetti più preparati, costituisce una garanzia ed anche uno strumento efficiente di preselezione senza nulla togliere alla fase di selezione vera e propria.
La formulazione del quesito contiene in sé una risposta che deve per forza essere negativa, ma nel senso di non essere per nulla favorevoli alla tesi abolizionista.


Più in generale, ha senso mantenere il valore legale della laurea nel mercato del lavoro?
Nel mercato del lavoro la laurea non ha mai avuto valore legale, sia per la nota irrilevanza della qualifica soggettiva, come tra i giuslavoristi si usa chiamare i titoli professionali in generale, (salvo i casi previsti dalla legge a presidio di interessi pubblici: si pensi alle qualifiche di direttore tecnico di imprese provate), sia per l'impossibilità di imporre a un privato cittadino limitazioni sì forti della sua autonomia contrattuale, salvo il caso – ovviamente – della discriminazione turpe. 
Cosicché il problema rimane confinato l'accesso all'esame di abilitazione per le professioni protette e l'accesso alla p.a.


Quali altri valori legali della laurea la Vostra Organizzazione riscontra nel nostro ordinamento?
Di valore legale si può parlare in ambito scolastico ed extrascolastico. Se ne individuano due aspetti, a nostro avviso da mantenere. Il primo è proprio dell'ambito scolastico ed è quello che il regolamento studenti del 1933 definisce “valore accademico”. Consiste nella certificazione necessaria per passare da un grado all'altro e da un ordine all'altro. Si tratta di una sistema che – pur attenuato nell'ambito dell'autonomia universitaria – consente ed agevola la mobilità tra sedi e corsi. Esso è presente in tutti gli ordinamenti, anche in quelli nei quali si assume -erroneamente – l'assenza di valore legale. Esso è certamente da mantenere se non si vuole generare una pericolosa autarchia di ogni istituzione di istruzione e innescare una sequela di verifiche individuali delle conoscenze di ogni studente che intenda modificare o proseguire altrove il proprio percorso di studi. Va anche ricordato che questo aspetto permette un’ enorme semplificazione nel riconoscimento dei percorsi formativi in ambito europeo e l’ abolizione del valore legale della laurea comporterebbe problemi non da poco per mantenere la compatibilità con lo Spazio Europeo dell’ Istruzione Superiore.

Il secondo aspetto appartiene all'ambito extrascolastico e come detto riguarda essenzialmente l'accesso alle professioni e alla p.a. Del suo operare si è detto, qui si aggiunge che esso è fondamentale strumento di eguaglianza, sebbene allo stato ancora prevalentemente formale, e come tale deve a nostro avviso essere mantenuto. Su come anzi possa essere migliorato diremo più avanti.


2. A parere della Vostra Organizzazione, quali implicazioni potrebbero esserci nel mondo del
lavoro con l'abolizione del valore legale della laurea?

Si aggraverebbe la segmentazione del mercato del lavoro tra aree economicamente svantaggiate aree più ricche del paese; creando barriere all'ingresso del mercato del lavoro delle professioni e di quello pubblico, che in Italia ha dimensioni ragguardevoli.
Esso sarebbe lungi dall'innescare una concorrenza tra atenei, effetto impossibile da realizzare con tale strumento in un sistema di istruzione e formazione come quello italiano che si presenta pieno di distorsioni e di disuguaglianze.
Al riguardo, si rileva che già da ora, la congettura della concorrenza sembra supporre che le università in competizione stiano tutte su un medesimo mercato.
Il giovane si diploma e decide che l'università alpha è pessima e non offre sbocchi, dunque, si iscrive all'università beta, che invece è accreditata di chiara fama, con ciò innescando -si dice - una corsa al miglioramento dell'università alpha.
La congettura oblitera gli immani ostacoli alla mobilità studentesca esistenti nel nostro Paese. 
Il problema di uno studente di Reggio Calabria che volesse iscriversi, poniamo il caso, a  Milano a Roma o a Torino, non è dato tanto dalle tasse universitarie (che in presenza di  qualità in astratto giustificherebbero, si dice, ma non si condivide, la spesa), ma dalla necessità di dovere gravare sulla sua famiglia per le spese di mantenimento (cioè degli studi nella loro interezza) in una città lontana; città in cui il costo degli alloggi e in generale dellavita è elevatissimo. È strano che, invece di guardare ai c.d. paesi anglosassoni affetto diversi  dal nostro, non si guardi alla Germania in cui, non solo il titolo ha valore legale, ma i costi di mantenimento, addirittura nella sua capitale, sono inferiori a quelli di una città italiana di provincia, oltre all’esistenza di un sistema di sussidi da fare impallidire ogni confronto con il nostro.
Ai guasti già indicati, abolendo il valore legale del titolo di studio, si rischia di aggiungere  quello della discriminazione territoriale, perché una Regione, una Provincia, un Comune  potrebbero ben accettare solo laureati provenienti dalla stessa Regione, Provincia, Comune.
Siamo ben consapevoli che vi è una parte politica che guarda con favore proprio a questo  aspetto. Ma questa è pura miopia, nel caso del sistema universitario. A fronte di politiche di altri paesi che incentivano l’ immigrazione intellettuale, qualsiasi possibile ostacolo alla  mobilità interna dei laureati suona come un atto di protezionismo fuori tempo massimo in  grado di favorire solo il peggiore provincialismo. Traiamo, proprio dalle argomentazioni per  dir così a favore della “territorializzazione” degli studi e dell'occupazione, la migliore  conferma della necessità di mantenere il valore legale e della dannosità e inutilità della sua  abolizione.
Inutile abolizione, perché se le lauree, uguali nella forma, fossero realmente così diverse nella sostanza, non ci sarebbe bisogno di abolirne il valore legale unificante per ottenere l'effetto selettivo.
Si osservi che se il male venisse dal valore legale non si spiegherebbe come i laureati italiani, specialmente quelli meridionali, cioè delle università che si additano a più scarso livello, trovano occupazione all'estero (mentre noi non importiamo laureati); oppure trovano occupazione in territori del Paese in cui hanno sede le università più blasonate, riuscendo dunque a fare concorrenza propri a quei laureati dei quali si presume la coincidenza della forma con la sostanza. Ciò accade sia nell'occupazione privata, sia nella p.a., sia nelle professioni; e allo stesso tempo i laureati degli atenei di c.d. eccellenza non si trasferiscono nella aree delle università meno qualificanti, dove invece avrebbero – in teoria – buon gioco per minore concorrenza.
In definitiva, l'abolizione in discussione servirebbe solo a acuire le discriminazioni territoriali già presenti. E da lì passare alle discriminazioni per formazione politica, religiosa et coetera il passo è breve.
Del resto, se pure si dimostrasse, ma finora nessuno c'è riuscito, che sia il “valore legale della certificazione” un ostacolo al funzionamento del mercato, il discorso dovrebbe essere spostato  alle “certificazioni” che effettivamente danno accesso al mercato, e cioè alle abilitazioni professionali, non alle lauree che anzi pre-selezionano i soggetti che partecipano all'abilitazione. E talune abilitazioni, così come concepite, sì che sono di ostacolo allacompetizione. È ben vero che la Costituzione le prevede, ma la costituzione non impedisce alla legge di attribuire valore abilitante ai percorsi di studio che abbiano certe caratteristiche.
Il che sarebbe a dire che “il valore legale del titolo di studio”, per garantire concorrenza leale, deve essere rafforzato e non abolito.
Del resto, in qualsiasi sistema (USA inclusi) una qualche misura di garanzia a priori sul soddisfacimento di certi criteri formativi è prevista. Che si chiami laurearsi presso università accreditate o valore legale non fa differenza dal punto di vista del mercato del lavoro. La fa dal punto di vista della possibilità di creare un sottobosco incontrollato di entità che rilasciano titoli "spazzatura". Fenomeno diffusissimo negli USA e quasi inesistente da noi a livello universitario.


3. Qual è la posizione della Vostra Organizzazione rispetto ad una possibile abolizione del valore legale della laurea e all'introduzione nel nostro sistema di organismi di "accreditamento" dei corsi di studio universitari che, come quelli anglosassoni, sarebbero costituiti da esperti del settore, capaci di valutarne la qualità e l'efficienza? 


Preliminarmente si osserva che parlare di "sistema anglosassone" tout court è improprio: il sistema inglese e quello americano non sono equivalenti (come risulta per altro evidente già alla lettura della documentazione informativa messa a disposizione sul sito del Senato).
L'accreditamento nel sistema italiano esiste già: lo svolge il MIUR. Se si pensa che funzioni male si cerchino al MIUR le responsabilità e gli errori.
La rispondenza della preparazione agli standard del mercato può anche tener conto di un punto di vista "esterno" all' accademia. Ma questo può essere compito di un' attenta ridefinizione delle politiche di valutazione dell' ANVUR. Pensare che la soluzione possa essere nel "libero mercato" è velleitario. Anche dove sembra che sia così (USA) in realtà ci si basa su una prassi ed una tradizione di lunga data che non possono essere trapiantate, da sé sole, nel sistema italiano semplicemente abolendo il valore legale della laurea.
Dunque, in funzione della risposta al quesito 2 è evidente che la nostra organizzazione non reputa incompatibili tra loro il mantenimento del valore legale del titolo di studio, che anzi con forza auspica, e un sistema di “verifica e controllo dei requisiti di qualità” quali presupposti per poter rilasciare il titolo. Detto in altri termini si può prevedere di attribuire valore legale non in modo automatico, una volta per sempre, ma solo ai titoli di studio rilasciati da università che abbiamo e mantengano requisiti strutturali di qualità, ma il titolo deve avere lo stesso valore da Brunico e Capo Passero senza graduazioni. 
Ciò su cui la nostra organizzazione è in forte dissenso è l’ idea di “accreditamento affidato a esperti del settore, capaci di valutarne la qualità e l'efficienza”.


Si osserva quanto sia singolare ricorrere a "esperti del settore" cioè “non studiosi”, per valutare una comunità di studiosi, che di mestiere fanno propri i valutatori.
Noi possiamo essere d'accordo con un sistema di valutazione centrale, non con un accreditamento,
(piace ricordare che le cliniche degli orrori sono state “accreditate”) purché a valutare siano studiosi indipendenti (peer review) – a garanzia delle prerogative di cui agli art. 9 e 33 della Costituzione - e non “manager” di questa o quell'impresa, di massima interessata a un indirizzo piuttosto che a un altro o a dipendenti di improvvisate “società di consulenza”.
Non si oppone alcuna obiezione a che si valuti oggettivamente il possesso di requisiti di qualità, definiti in modo condiviso, stabile e resi noti con considerevole anticipo rispetto alla valutazione.
Ove, invece si ritenesse di istituire un sistema di accreditamento di "esperti del settore" diversi dai docenti degli atenei significherebbe espropriare in modo ingiustificato e offensivo un'intera categoria della sua dignità professionale.


Secondo la Vostra Organizzazione, tale sistema potrebbe garantire una preparazione più rispondente agli standard del mercato?
Spostare l'attenzione formativo-professionalizzante su un sistema di c.d. master, che alla fine del loro percorso immettano sul mercato del lavoro, delle professioni, dell'impiego presso la p.a. (non si può escludere pure verso l'impiego privato, ma è irrilevante prevederlo), inglobando al loro interno il tirocinio o la pratica professionale.    Meccanismi di incentivazione per una migliore comunicazione tra mondo produttivo e università potrebbero aiutare. Va però notato che l’analisi della maggiore o minore rispondenza della preparazione dei laureati agli standard del mercato andrebbe fatta in modo indipendente dalle posizioni delle associazioni produttive e in particolare da quelle confindustriali. Chi nel mondo accademico si confronta col mondo delle aziende, magari con un occhio anche al mercato europeo del lavoro, non ha la stessa percezione che traspare da certe posizioni pubbliche di  Confindustria.

4. Che ruolo vorrebbero e potrebbero assumere i sindacati in un sistema di accreditamento come quello sopra descritto?

Non dovrebbero avere alcuna parte nella gestione del sistema. Anzi dovrebbero essere stabilite ferree incompatibilità tra gestori e sindacati, partiti politici, enti confessionali etc.. Il riferimento ai sindacati, di tutta evidenza, si rifà al sistema inglese e soprattutto americano; ma in quei sistemi giocano un forte ruolo le organizzazioni professionali che però non sono sovrapponibili come struttura, tradizione e missione ai nostri sindacati. Il loro controllo si svolge sull'accesso alla professione e come tale – ove lo si volesse importare nel nostro – dovrebbe essere riferito non al valore del titolo di studio, ma a quello dell'abilitazione professionale. Nel nostro sistema, invece, si reputano compatibili esclusivamente funzioni di controllo a livello di sistema.
Nei Master abilitanti prima ipotizzati, le organizzazioni professionali, ovvero la stessa p.a. possono avere un ruolo diretto. In tale ipotesi di potrebbe pensare a un accreditamento nazionale o locale.


5. A parere della Vostra Organizzazione, ci sono altri strumenti, oltre all'abolizione del valore legale della laurea, che consentirebbero di rendere l'offerta formativa universitaria più aderente alle esigenze di mercato?
Il quesito, nel suo complesso, considera l'istruzione universitaria alla stessa stregua di un  corso di formazione professionale, che se non insegna da sé un mestiere è inutile che ci sia; si  basa, inoltre, su presupposti impliciti, che però non necessariamente devono essere condivisi.
Essi sono: -che l'offerta formativa universitaria non è aderente alle esigenze di mercato; -che debba esserlo in massima misura; -che l'abolizione del valore legale della laurea sarebbe di per sé utile allo scopo; -che le esigenze del mercato siano conosciute, conoscibili, stabili e, in qualche misura, prevalenti su altri orientamenti strategici. La funzione dell'università è ben diversa ed è quella di riprodurre studiosi e formare classe dirigente, con funzione propulsiva della Società e non adattativa a questa. Massimamente in un sistema di Istruzione pubblica statale universale, quale si ricava dagli art 9 e 33 Cost., gli obiettivi dell'università incarnano quelli dello Stato, cioè, tanto per citare un autore indubbiamente liberista, Adam Smith, quello di orientare il mercato stimolando gli agenti a modernizzarsi.
A nostro avviso compito dell’Università non dovrebbe essere quello di adeguarsi al mercato del lavoro, come decenni di riformismo fallimentare, di destra e di sinistra, hanno vanamente preteso che facesse, ma di fornire nuove idée e persone in grado di averne. Non di fornire conoscenze precarie a un ciclo produttivo dominato dalla contingenza degli interessi aziendali e dalla programmazione a tre mesi. Se la ricerca e la didattica non si spingessero oltre l’utilità dell’oggi, non rifiutassero il “merito” dell’adattamento, non aprissero a nuovi percorsi “possibili” che solo in parte saranno destinati a realizzarsi, allora la nostra Università non svolgerebbe il ruolo che in tutto il mondo industrializzato è svolto da tale Istituzione.


Essendo evidente che per quanto detto non condividiamo né la filosofia del quesito né i presupposti impliciti di esso che e anzi sono considerati dei falsi presupposti, la nostra risposta al quesito deve intendersi data come se il quesito chiedesse solo: Che cosa consentirebbe di rendere una parte dell'offerta formativa universitaria più aderente alla domanda del mercato?
Al riguardo si ritiene sufficiente far funzionare la valutazione (cfr. ANVUR) stabilendo in sede di valutazione gli opportuni canali di feedback con i vari stakeholders esterni. Per l'individuazione dei quali va però tenuto presente che, oltre al mercato interno, esiste anche il mercato del lavoro all'estero che spesso ha una maggiore dinamica e lungimiranza di quello interno, tanto è vero che assume i nostri laureati, così come sono oggi, da dovunque provengano, spesso facendo affidamento, in ordine alla solidità della loro preparazione, proprio al titolo, quello con valore legale di cui discutiamo.


(prof. calogero massimo cammalleri, coordinatore nazionale p.t.)


CONPASS

http://www.professoriassociati.it

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