sabato 11 giugno 2011

Imprese comprano università?

[ 10 giugno 2011 ] Comunicazione | Economia ecologica

Nicola Bellini

Italia Oggi del 7 giugno ci racconta una storia che dovrebbe fare venire i brividi anche in Italia. Con un finanziamento di 3 milioni di euro l'anno la Deutsche Bank ha di fatto messo sotto tutela due prestigiose università di Berlino (la Humboldt e la Freie Univeristat), con un contratto che prevede un intervento diretto nella gestione dell'isttituto di matematica finanziaria, a cominciare dalla scelta dei docenti. Come ha lapidariamente commentato "Der Speigel", la banca si è comprata la scienza.
Chi scrive è tra quanti credono che una buona dose di privatizzazione delle università pubbliche sia inevitabile e benefica. Ricerca e formazione avanzata hanno bisogno di risorse, ma anche degli stimoli che un rapporto con la gestione clientelare e bancarottiera delle università italiane pubbliche non lascia alcuna credibilità all'ipocrita purismo di chi vuole che lo Stato tuteli la libertà di ricerca (spesso un paravento all'autoreferenzialità), ma insieme copra anche modalità di gestione (a cominciare dai reclutamenti) che definire privatistici è dir poco.
Tuttavia, se forme di coinvolgimento dei privati appaiono utili sia nel dare risorse sia nel vigilarne l'utilizzo, tocca pure ai privati fare crescere la propria visione del ruolo dell'università. Piegare le agende di ricerca e formazione alle "esigenze delle imprese" significa spesso adottare visioni miopi, che cercano risposte a breve e fortemente funzionali ai bisogni del committente. Anche i privati mostrano allora la loro dose abbondante di ipocrisia.
L'investimento nelle università, lungi dall'essere espressione di un illuminato favore per la promozione della ricerca, rappresenta un'alternativa meno costosa (e magari fiscalmente incentivata) a quella di realizzare invece proprie corporate universities. 
Anzi i "generosi contributi" sfruttano gli investimenti materiali ed immateriali (oltre che la reputazione e il brand) realizzati spesso nel corso di secoli.
Le imprese quindi "ci guadagnano", ma insieme rinunciano ad attingere ai contributi più innovativi che possono derivare solo da agende accademiche, certamente costruite in un dialogo anche con gli attori economici, ma non eterodirette. 
Ne vale la pena?

1 commento:

  1. Non ho il piacere di cnoscere Nicola Bellini, ma forse è meglio, non mi sono perso niente. Fa parte del coro degli efficientisti della domenica.
    Vorrei sapere da Nicola Bellini chi sono i privati italiani che finanziano l'Università. Vorrei sapere perché evita di commentare i dati che riguardano i finanziamenti ricevuti dall'industria sotto l'etichetta (falsa) di incentivi a innovazione e ricerca. Vorrei sapere se si fida di una classe di imprenditori che danno prova radiosa del loro marciume, a cominciare dai livelli più alti di Confindustria.
    Bellini fa un discorso che potrebbe andare bene se avessimo in Italia una classe imprenditoriale non collusa con la corruttela della cricca di regime. Bellini sa che gli imprenditori che contano, si guardano bene dal finanziare la ricerca perché sono interessati, piuttosto, a intercettare per sé quei fondi, mentre i piccoli imprenditori, quelli che sono esclusi dal banchetto, si possono permettere solo di finanziare le raccolte benefiche di Telethon.
    Non vogliamo difendere gli episodi di cattiva gestione, di bancarotta e di nepotismo che si sono, purtroppo, verificati nell'Università. Assolutamente no. Ma per la correzione degli errori della gestione universitaria ci vuole ben altro. Invece di invocare l'intervento salvifico dei imprenditori privati italiani, che ne direste se cominciassimo a guardare alla produttività scientifica ed al merito?

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