mercoledì 28 settembre 2011

I DIRITTI SONO UN LUSSO


La Rete della Conoscenza ha lanciato la campagna "I diritti sono un lusso" con manifestazioni vedrà in piazza il 7 ottobre -  data di mobilitazione lanciata dall'Unione degli studenti - e il 15 ottobre.

Il diritto allo studio diventa sempre più un diritto per pochi lo denuncia la Rete della Conoscenza lanciando una campagna nazionale “I diritti sono un lusso”, parodia dello slogan pubblicitario “Il lusso è un diritto”.

Oggi 28 settembre in numerose città italiane sono previste azioni dimostrative da parte di studenti medi e universitari dell'Unione degli studenti e di Link -coordinamento universitario “Con le manovre finanziarie del 2010 e la Legge di Stabilità 2011 il Governo ha tagliato del 94% (in tre anni) il fondo per le borse di studio portandolo dai 246 Milioni di euro del 2009 a 13 Milioni nel 2012” denunciano i ragazzi di Link “con il risultato di cancellare il contributo dello Stato agli studenti meno abbienti. Per quest’anno si stima che soltanto la metà degli aventi diritto percepirà realmente la borsa di studio che gli spetterebbe. Se a questo si aggiunge la situazione di crisi generale, si capisce come diventa sempre più difficile pagarsi gli studi.”

Nelle scuole si evidenziano sempre di più le conseguenze dei tagli di 8 miliardi ai finanziamenti "L'aumento vertiginoso del costo dei libri, dei trasporti e della cultura in questo periodo di crisi comporta per molti studenti la rinuncia ad una vera formazione di qualità se non addirittura, come in moltissimi caso, all'abbandono scolastico. - dichiara l'uds - I tagli al diritto allo studio non hanno permesso di superare questo ostacolo economico per gli studenti. L'assenza di una legge quadro e di finanziamenti sul diritto allo studio comporta nelle scuola una selezione sociale aberrante tra chi può permettersi l'elevato costo dell'istruzione e chi no."

Contemporaneamente salgono a quota 254 milioni i finanziamenti alle scuole private e 30 milioni per il Fondo per il Merito e i prestiti d'onore.

"I diritti sono un lusso" è una campagna che collega tutte le vertenze sul diritto allo studio regionali in un quadro di rivendicazione nazionale per un'Altra Riforma della scuola e dell'università che metta al centro il diritto allo studio come diritto fondamentale del nostro Paese.

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sabato 24 settembre 2011

La scoperta del CERN di Ginevra e dell'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare è un avvenimento scientifico di fondamentale importanza


Rivolgo il mio plauso e le mie più sentite congratulazioni agli autori di un esperimento storico. Sono profondamente grata a tutti i ricercatori italiani che hanno contribuito a questo evento che cambierà il volto della fisica moderna.
Il superamento della velocità della luce è una vittoria epocale per la ricerca scientifica di tutto il mondo.

Alla costruzione del tunnel tra il Cern ed i laboratori del Gran Sasso, attraverso il quale si è svolto l'esperimento, l'Italia ha contribuito con uno stanziamento oggi stimabile intorno ai 45 milioni di euro.

Inoltre, oggi l'Italia sostiene il Cern con assoluta convinzione, con un contributo di oltre 80 milioni di euro l'anno e gli eventi che stiamo vivendo ci confermano che si tratta di una scelta giusta e lungimirante". 


Link alla mappa del tunnel

 

Verso l'assemblea nazionale RUN - La Sapienza 30 settembre/1 ottobre



Venerdì 30 settembre, Dipartimento di Fisica – vecchio edificio
10.00/13.00 Assemblea plenaria
13.30 Pausa pranzo
15.00 Gruppi di lavoro

Welfare e diritti di cittadinanza studentesca
coordina Roberto Angelini - Università Roma La Sapienza

Statuti e autogoverno dell’Università 
coordina Alberto Giusti - Università degli studi di Firenze

Conoscenza e Lavoro
coordina Rebecca Ghio - Università degli studi di Torino

Rappresentanze a confronto: studenti e parlamentari per l’Università 
coordina Federica Assanti - Università degli Studi Roma Tre

20.00 Cena
21.30 concerto al pratone della città universitaria


Sabato 1 ottobre, Facoltà di Lettere e Filosofia
09.30/13.00 assemblea plenaria conclusiva

Presentazione documento finale dei gruppi

13.30 pranzo

venerdì 23 settembre 2011

Criteri e parametri

La legge 240/2010 ha istituito l’abilitazione scientifica nazionale per l’accesso ai ruoli di professore universitario prevedendo che la valutazione dei candidati avvenga secondo dei “criteri e parametri” stabiliti da un decreto ministeriale, ora in corso di emanazione. Con questa disposizione viene stabilito che la selezione dei professori non sia frutto della libera valutazione di commissioni indipendenti, ma venga assoggettata a delle regole ministeriali. Diversi decenni di cattive pratiche - che in alcuni casi si sono configurate come dei veri e propri abusi - hanno spinto il legislatore a togliere all’accademia il controllo sulla selezione dei docenti. Il dibattito si è ora spostato sulla definizione di queste nuove “regole” ministeriali. Il decreto che istituisce l’abilitazione dei professori recita che: «il Ministro, con proprio decreto, definisce criteri e parametri, differenziati per funzione e per area disciplinare, ai fini della valutazione dei candidati». Per la definizione dei «criteri e dei parametri» il Ministro ha chiesto dei pareri a tre suoi organi di consulenza: l’ANVUR, il CEPR e il CUN, i quali, lavorando in modo autonomo, hanno prodotto delle proposte articolate.

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mercoledì 21 settembre 2011

"Pecore" o "leoni" ?

Con 2.000,00 Euro al mese siamo PECORE ed è meglio che le pecore stiamo "...a casa". Oggi il "campo" è dei LEONI che vogliono guadagnare 20.000,00 Euro al mese e si vendono anche la madre.  Per vedere il VIDEO su Youtube clicca QUI
 
Caspita facciamo due conti, in UNIVERSITA' siamo fuori mercato completamente, basta pensare allo stipendio del Personale Tecnico e Amministrativo, a quello dei ricercatori, dei Professori di I^ e II^ fascia. C'è qualche pecorone, ma siamo quasi tutti "pecore" con stipendio contingentato. 
Ci viene anche il dubbio che ci sia qualche "leone" strapagato che si nasconde a Palazzo?

Comunque, se sei "schifato" dall'intervista e vuoi vederne una di altro genere clicca QUI. Al termine certamente penserai ancora alle "pecore" e ai "leoni" di casa nostra, ma forse sarai più consapevole.

A questo punto consigliamo una terza e ultima intervista, molto più vicina al nostro mondo astratto dalla realtà delle "pecore" e dei "leoni", ma che conserva qualche barlume di "intelligenza". Clicca QUI.

giovedì 15 settembre 2011

LA COSTITUZIONE ITALIANA PROMUOVE LA SCUOLA E L'UNIVERSITA' PUBBLICA, IL GOVERNO INVECE OGGI LA CONSIDERA UN PESO


 


Discorso pronunciato da Piero Calamandrei al III Congresso dell’Associazione a difesa della scuola nazionale (ADSN), Roma 11 febbraio 1950
[Pubblicato in "Scuola democratica", periodico di battaglia per una nuova scuola, Roma, iv, suppl. al n. 2 del 20 marzo 1950, pp. 1-5]



“Cari colleghi,
Noi siamo qui insegnanti di tutti gli ordini di scuole, dalle elementari alle università, affratellati in questo esercizio quotidiano di altruismo, in questa devozione giornaliera al domani, all’avvenire che noi prepariamo e che non vedremo, che è l’insegnamento. Siamo qui riuniti in questo convegno che si intitola alla Difesa della scuola.
Perché difendiamo la scuola? Forse la scuola è in pericolo? Qual è la scuola che noi difendiamo? Qual è il pericolo che incombe sulla scuola che noi difendiamo?
Può venire subito in mente che noi siamo riuniti per difendere la scuola laica. Ed è anche un po’ vero ed è stato detto stamane. Ma non è tutto qui, c’è qualche cosa di più alto.
Questa nostra riunione non si deve immiserire in una polemica fra clericali ed anticlericali. Senza dire, poi, che si difende quello che abbiamo. Ora, siete proprio sicuri che in Italia noi abbiamo la scuola laica? Che si possa difendere la scuola laica come se ci fosse, dopo l’art. 7? Ma lasciamo fare, andiamo oltre. Difendiamo la scuola democratica: la scuola che corrisponde a quella Costituzione democratica che ci siamo voluti dare; la scuola che è in funzione di questa Costituzione, che può essere strumento, perché questa Costituzione scritta sui fogli diventi realtà.
Vedete, amici, io non sono un pedagogista, non sono un esperto di questioni scolastiche. Io sono un giurista abituato per abito mentale a vedere di tutti i problemi l’aspetto giuridico. E quindi anche del problema della scuola, quale si presenta oggi a questo congresso, sarò portato naturalmente a vedere gli aspetti giuridici, costituionali. Mi dispiace per l’amico Targetti [politico socialista, membro della costituente prima, della Camera poi], che ha detto con la sua solità amabilità che si riprometteva di divertirsi ad ascoltarmi. Non si divertirà, non vi divertirete; ma cercherò di dirvi delle cose esatte e chiare perchè nell’affrontare e nel risolvere i problemi bisogna prima di tutto avere esatta consapevolezza dei loro termini.
La scuola, come la vedo io, è un organo “costituzionale”. Ha la sua posizione, la sua importanza al centro di quel complesso di organi che formano la Costituzione. Come voi sapete (tutti voi avrete letto la nostra Costituzione), nella seconda parte della Costituzione, quella che si intitola “l’ordinamento dello Stato”, sono descritti quegli organi attraverso i quali si esprime la volontà del popolo. Quegli organi attraverso i quali la politica si trasforma in diritto, le vitali e sane lotte della politica si trasformano in leggi. Ora, quando vi viene in mente di domandarvi quali sono gli organi costituzionali, a tutti voi verrà naturale la risposta: sono le Camere, la Camera dei deputati, il Senato, il presidente della Repubblica, la Magistratura: ma non vi verrà in mente di considerare fra questi organi anche la scuola, la quale invece è un organo vitale della democrazia come noi la concepiamo. Se si dovesse fare un paragone tra l’organismo costituzionale e l’organismo umano, si dovrebbe dire che la scuola corrisponde a quegli organi che nell’organismo umano hanno la funzione di creare il sangue. Gli organi ematopoietici, quelli d cui parte il sangue che rinnova giornalmente tutti gli altri organi, che porta a tutti gli altri organi, giornalmente, battito per battito, la rinnovazione e la vita.
La scuola, organo centrale della democrazia, perché serve a risolvere quello che secondo noi è il problema centrale della democrazia: la formazione della classe dirigente. La formazione della classe dirigente, non solo nel senso di classe politica, di quella classe cioè che siede in Parlamento e discute e parla (e magari urla) che è al vertice degli organi più propriamente politici, ma anche classe dirigente nel senso culturale e tecnico: coloro che sono a capo delle officine e delle aziende, che insegnano, che scrivono, artisti, professionisti, poeti. Questo è il problema della democrazia, la creazione di questa classe, la quale non deve essere una casta ereditaria, chiusa, una oligarchia, una chiesa, un clero, un ordine. No. Nel nostro pensiero di democrazia, la classe dirigente deve essere aperta e sempre rinnovata dall’afflusso verso l’alto degli elementi migliori di tutte le classi, di tutte le categorie. Ogni classe, ogni categoria deve avere la possibilità di liberare verso l’alto i suoi elementi migliori, perché ciascuno di essi possa temporaneamente, transitoriamente, per quel breve istante di vita che la sorte concede a ciascuno di noi, contribuire a portare il suo lavoro, le sue migliori qualità personali al progresso della società.
Vi ho detto che io sono un giurista; ma ho l’abitudine, che mi deriva forse un po’ da una certa affezione toscana al disegno ben fatto, di associare i concetti giuridici e politici a qualche immagine, che poi mi serve ad affezionarmi a questi concetti. Ora, quando io penso a questo concetto della classe dirigente aperta in continuo rinnovamento, che deriva dall’affluire dal basso di questi elementi migliori, cui la scuola deve dare la possibilità di affiorare, mi viene in mente (se c’è qui qualche collega botanico mi corregga se dico degli errori) una certa pianticella che vive negli stagni e che ha le sue radici immerse al fondo, che si chiama la vallisneria e che nella stagione invernale non si vede perché è giù nella melma. Ma quando viene la primavera, quando attraverso le acque queste radici che sono in fondo si accorgono che è tornata la primavera, da ognuna di queste pianticelle comincia a svolgersi uno stelo a spirale, che pian piano si snoda, si allunga finché arriva alla superficie dello stagno: e insieme con essa altre cento pianticelle e anche esse in cerca del sole. E quando arriva su, ognuna, appena sente l’aria, fiorisce, ed in pochi giorni la superficie dello stagno, che era cupa e buia, appare coperta da tutta una fioritura, come un prato.
Anche nella società avviene, dovrà avvenire qualche cosa di simile. Da tutta la bassura della sorte umana originaria, dall’incultura originaria dovrà ciascuno poter lanciare su, snodare il suo piccolo stelo per arrivare a prendere la sua parte di sole. A questo deve servire la democrazia, permettere ad ogni uomo degno di avere la sua parte di sole e di dignità. Ma questo può farlo soltanto la scuola, la quale è il complemento necessario del suffragio universale. La scuola, che ha proprio questo carattere in alto senso politico, perché solo essa può aiutare a scegliere, essa sola può aiutare a creare le persone degne di essere scelte, che affiorino da tutti i ceti sociali.
Vedete, questa immagine è consacrata in un articolo della Costituzione, sia pure con una formula meno immaginosa. È l’art. 34, in cui è detto: “La scuola è aperta a tutti. I capaci ed i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Questo è l’articolo più importante della nostra Costituzione. Bisogna rendersi conto del valore politico e sociale di questo articolo. Seminarium rei pubblicae, dicevano i latini del matrimonio. Noi potremmo dirlo della scuola: seminarium rei pubblicae: la scuola elabora i migliori per la rinnovazione continua, quotidiana della classe dirigente. Ora, se questa è la funzione costituzionale della scuola nella nostra Repubblica, domandiamoci: com’è costruito questo strumento? Quali sono i suoi principi fondamentali? Prima di tutto, scuola di Stato. Lo Stato deve costituire le sue scuole. Prima di tutto la scuola pubblica. Prima di esaltare la scuola privata bisogna parlare della scuola pubblica. La scuola pubblica è il prius, quella privata è il posterius. Per aversi una scuola privata buona bisogna che quella dello Stato sia ottima (applausi). Vedete, noi dobbiamo prima di tutto mettere l’accento su quel comma dell’art. 33 della Costituzione che dice così: “La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi”. Dunque, per questo comma -scusate se io vi faccio una specie di commento esegetico, piuttosto pedantesco- lo Stato ha in materia scolastica, prima di tutto una funzione normativa. Lo Stato deve porre la legislazione scolastica nei suoi principi generali. Poi, immediatamente, lo Stato ha una funzione di realizzazione.
Lo Stato non si deve limitare a porre i principi platonici, ideali, teorici della Costituzione delle scuole, Le deve costituire in conformità, con fedeltà a questi principi. Istituire, realizzare tutte le scuole, di tutti gli ordini. E questo non deve fare a titolo, direi quasi, di campionario. Lo stato non deve dire: io faccio una scuola come modello, poi il resto lo facciano gli altri. No, la scuola è aperta a tutti e se tutti vogliono frequentare la scuola di Stato, ci devono essere in tutti gli ordini di scuole, tante scuole ottime, corrispondenti ai principi posti dallo Stato, scuole pubbliche, che permettano di raccogliere tutti coloro che si rivolgono allo Stato per andare nelle sue scuole. La scuola è aperta a tutti. Lo Stato deve quindi costituire scuole ottime per ospitare tutti. Questo è scritto nell’art. 33 della Costituzione. La scuola di Stato, la scuola democratica, è una scuola che ha un carattere unitario, è la scuola di tutti, crea cittadini, non crea né cattolici, né protestanti, né marxisti. La scuola è l’espressione di un altro articolo della Costituzione: dell’art. 3: “Tutti i cittadini hanno parità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinione politica, di condizioni personali e sociali”. E l’art. 51: “Tutti i cittadini possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”. Di questi due articoli deve essere strumento la scuola di stato, strumento di questa eguaglianza civica, di questo rispetto per le libertà di tutte le fedi e di tutte le opinioni. Questo strumento è la scuola pubblica, democratica; della quale è stato detto esattamente da un caro amico, da Guido Calogero:
Attraverso la struttura dei programmi e del metodo didattico e la piena apertura della scuola a insegnanti ed a studenti di ogni convincimento e di ogni religione, senza alcuna preferenza di parte per gli uni e per gli altri, la scuola pubblica assicura che ogni voce sia presente, che nessuna verità venga insegnata senza essere anzitutto messa in dubbio nel pacato confronto con le verità opposte, che l’acquisizione dei convincimenti abbia luogo non sotto la pressione di una mentalità dogmatica, ma nello spirito della libera discussione critica, solo capace di non far dimenticare i contemporanei diritti dei convincimenti altrui.

Quando la scuola pubblica è così forte e sicura, allora, ma allora soltanto, la scuola privata non è pericolosa. Allora, ma allora soltanto, la scuola privata può essere un bene. Può essere un bene che forze private, iniziative pedagogiche di classi, di gruppi religiosi, di gruppi politici, di filosofie, di correnti culturali, cooperino con lo stato ad allargare, a stimolare, e a rinnovare con varietà di tentativi la cultura. Al diritto della famiglia, che è consacrato in un altro articolo della Costituzione, nell’articolo 30, di istruire e di educare i figli, corrisponde questa opportunità che deve essere data alle famiglie di far frequentare ai loro figlioli scuole di loro gradimento e quindi di permettere la istituzione di scuole che meglio corrispondano – con certe garanzie che ora vedremo – alle preferenze politiche, religiose, culturali di quella famiglia. Ma rendiamoci ben conto che mentre la scuola pubblica è espressione di unità, di coesione, di uguaglianza civica, la scuola privata è espressione di varietà, che può voler dire eterogeneità di correnti decentratici, che lo stato deve impedire che divengano correnti disgregatrici. La scuola privata, in altre parole, non è creata per questo.
La scuola della repubblica, la scuola dello stato, non è la scuola di una filosofia, di una religione, di un partito, di una setta. Quindi, perché le scuole private sorgendo possano essere un bene e non un pericolo, occorre: 1) che lo stato le sorvegli e le controlli e che sia neutrale, imparziale tra esse. Che non favorisca un gruppo di scuole private a danno di altre. 2) Che le scuole private corrispondano a certi requisiti minimi di serietà di organizzazione. Solamente in questo modo e in altri più precisi, che tra poco dirò, si può avere il vantaggio della coesistenza della scuola pubblica con la scuola privata. La gara cioè tra le scuole statali e le scuole private.
Che si stabilisca una gara tra le scuole pubbliche e le scuole private, in modo che lo stato da queste scuole private che sorgono, e che eventualmente possono portare idee e realizzazioni che finora nelle scuole pubbliche non c’erano, si senta stimolato a far meglio, a rendere, se mi sia permessa l’espressione, “più ottime” le proprie scuole. Stimolo dunque deve essere la scuola privata allo stato, non motivo di abdicazione.
Ci siano pure scuole di partito o scuole di chiesa. Ma lo stato le deve sorvegliare, le deve regolare; le deve tenere nei loro limiti e deve riuscire a far meglio di loro. La scuola di stato, insomma, deve essere una garanzia, perché non si scivoli in quello che sarebbe la fine della scuola e forse la fine della democrazia e della libertà, cioè nella scuola di partito.
Come si fa a istituire in un paese la scuola di partito? Si può fare in due modi. Uno è quello del totalitarismo aperto, confessato. Lo abbiamo sperimentato, ahimè. Credo che tutti qui ve ne ricordiate, quantunque molta gente non se ne ricordi più. Lo abbiamo sperimentato sotto il fascismo. Tutte le scuole diventano scuole di stato: la scuola privata non è più permessa, ma lo stato diventa un partito e quindi tutte le scuole sono scuole di stato, ma per questo sono anche scuole di partito. Ma c’è un’altra forma per arrivare a trasformare la scuola di stato in scuola di partito o di setta. Il totalitarismo subdolo, indiretto, torpido, come certe polmoniti torpide che vengono senza febbre ma che sono pericolosissime.
Facciamo l’ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuol fare la marcia su Roma e trasformare l’aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura. Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di stato hanno il difetto di essere imparziali. C’è una certa resistenza; in quelle scuole c’è sempre, perfino sotto il fascismo c’è stata. Allora, il partito dominante segue un’altra strada (è tutta un’ipotesi teorica, intendiamoci).
Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito. Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori – si dice – di quelle di stato. E magari si danno dei premi, come ora vi dirò, o si propone di dare dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A “quelle” scuole private.
Gli esami sono più facili, si studia meno e si riesce meglio. Così la scuola privata diventa una scuola privilegiata. Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di stato per dare la prevalenza alle sue scuole private.
Attenzione, amici, in questo convegno questo è il punto che bisogna discutere. Attenzione, questa è la ricetta. Bisogna tener d’occhio i cuochi di questa bassa cucina.
L’operazione si fa in tre modi: 1) ve l’ho già detto: rovinare le scuole di stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni. 2) Attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette. 3) Dare alle scuole private denaro pubblico. Questo è il punto. Dare alle scuole private denaro pubblico! Quest’ultimo è il metodo più pericoloso. È la fase più pericolosa di tutta l’operazione. E badate che è già largamente impiegata, se non proprio nel campo della scuola, per esempio nel campo dell’assistenza scolastica, dove ci sono cifre inaudite, incredibili, decine di miliardi, si riesce a sapere dove sono andati a finire e se sono andati alle scuole pubbliche. Dove siano andati gli altri non si riesce a saperlo. Soltanto, senza bisogno di tanta fantasia, si riesce ad immaginarlo.
Questo dunque è il punto, è il punto più pericoloso del metodo. Denaro di tutti i cittadini, di tutti i contribuenti, di tutti i credenti nelle diverse religioni, di tutti gli appartenenti ai diversi partiti, che invece viene destinato ad alimentare le scuole di una sola religione, di una sola setta, di un solo partito.
Voi vi rendete conto che nella situazione catastrofica in cui si trova la scuola pubblica, si arriva a delle cifre paurose. Si parla di obbligo dell’istruzione, ma ci sono in Italia più di due milioni di ragazzi che si sottraggono all’obbligo dell’istruzione scolastica perché mancano cinquantamila aule; ed intanto si verifica una cosa veramente straordinaria. In Italia vi è la disoccupazione dei maestri. In Italia, dove ci sono tanti ragazzi che mancano della istruzione fondamentale, ci sono quarantamila maestri disoccupati, perché mancano le scuole!
Dunque, in questa situazione tragica è una follia, è un delitto pensare che lo stato, invece di concentrare nella scuola pubblica tutte le risorse del piccolo bilancio dell’istruzione (piccolo in confronto di altri bilanci che voi sapete quali sono) si metta a distribuire il denaro alle scuole private.
Negli stati in cui la scuola privata è in fiore, sono i privati che danno allo stato il contributo della loro ricchezza, per accrescere la vitalità scolastica della nazione. Non il rovescio: cioè che sia lo stato che dimentica di fare il minimo necessario per la propria scuola e che poi disperde i suoi pochi denari in questa specie di protezionismo scolastico che consiste nel dare sussidi alle scuole private.
Per prevedere questo pericolo, non ci voleva molta furberia. Durante la Costituente, a prevenirlo nell’articolo 33 della Costituzione fu messa questa disposizione: “Enti e privati hanno diritto di istituire scuole ed istituti di educazione senza onere per lo stato”.
Come sapete questa formula nacque da un compromesso; e come tutte le formule nate da compromessi, offre il destro, oggi, ad interpretazioni sofistiche come quelle di chi sostiene: per questo articolo 33, un privato, se vuole istituire una scuola non ha diritto di rivolgersi allo stato per essere sussidiato al momento iniziale; ma una volta istituita la scuola, l’articolo 33 non vieta che ci si rivolga allo stato per avere successivamente un sussidio. Ed anche se diritto non c’è ci si rivolge allo stato, ed in certi casi c’è il buon cuore. Lo stato può, se vuole, alle scuole già istituite, dare un sussidio.
Ora, vedete, io credo che, dato questo testo, così com’è, non si possa negare che in casi eccezionalissimi lo stato possa dare un sussidio a scuole private. L’articolo 33 dice soltanto che non c’è diritto, ma bisogna che mettiamo in chiaro questo punto. Quindi mi pare che debba essere nostra cura e vostra, nel Congresso in cui discuterete anche questo punto di reclamare che questo articolo, nella prossima riforma, sia completato con disposizioni le quali garantiscano che questi sussidi dello stato alle scuole private possano essere dati soltanto in casi eccezionalissimi, attraverso controlli, e non già con il beneplacito del solo ministro, il quale è certamente persona imparziale, ma potrebbe anche venire in seguito un ministro che non sia imparziale. Quindi sussidio, sì ma con un controllo preciso, di organi il più possibile indipendenti. Io penso che potrebbe essere la commissione legislativa della Camera o del Senato per l’istruzione.
Questo o altro sistema che si escogiti, è un problema da esaminare attentamente.
Ma poi c’è un’altra questione che è venuta fuori, che dovrebbe permettere di raggirare la legge. Si tratta di ciò che noi giuristi chiamiamo la “frode alla legge”, che è quel quid che i clienti chiedono ai causidici di pochi scrupoli, ai quali il cliente si rivolge per sapere come può violare la legge figurando di osservarla. È strano che in certi documenti ufficiali, indubbiamente senza cattiva volontà, siano sfuggite frasi che possano far pensare a questa figura troppo nota della frode alla legge.
È venuta così fuori l’idea dell’assegno familiare, dell’assegno familiare scolastico. Il ministro dell’Istruzione al Congresso Internazionale degli Istituti Familiari, disse: la scuola privata deve servire a “stimolare” al massimo le spese non statali per l’insegnamento, ma non bisogna escludere che anche lo stato dia sussidi alle scuole private. Però aggiunse: pensate, se un padre vuol mandare il suo figliolo alla scuola privata, bisogna che paghi tasse. E questo padre è un cittadino che ha già pagato come contribuente la sua tassa per partecipare alla spesa che lo stato eroga per le scuole pubbliche. Dunque questo povero padre deve pagare due volte la tassa. Allora a questo benemerito cittadino che vuole mandare il figlio alla scuola privata, per sollevarlo da questo doppio onere, si dà un assegno familiare.
Chi vuol mandare un suo figlio alla scuola privata, si rivolge quindi allo stato ed ha un sussidio un assegno.
Disse il ministro: “È un argomento che per la sua novità non può non dare motivo a incertezze e a discordi pareri”. Certo, certo. Però confido che voi non sarete di discorde parere e che sarete tutti contrari, perché è un ragionamento che è basato su un sofisma. Il cittadino che paga due volte! Il mandare il proprio figlio alla scuola privata è un diritto, lo dice la Costituzione, ma è un diritto il farselo pagare? È un diritto che uno, se vuole, lo esercita, ma a proprie spese. Il cittadino che vuole mandare il figlio alla scuola privata, se la paghi, se no lo mandi alla scuola pubblica.
Per portare un paragone, nel campo della giustizia si potrebbe fare un discorso simile. Voi sapete come per ottenere giustizia ci sono i giudici pubblici; peraltro i cittadini hanno diritto di fare decidere le loro controversie anche dagli arbitri. Ma l’arbitrato costa caro, spesso costa centinaia di migliaia di lire. Eppure non è mai venuto in mente a un cittadino, che preferisca ai giudici pubblici l’arbitrato, di rivolgersi allo stato per chiedergli un sussidio allo scopo di pagarsi gli arbitri!
Ora, il ragionamento che è stato fatto non dal ministro, ma da chi gli ha preparato queste argomentazioni, è un ragionamento incoerente che non tiene conto della realtà giuridica delle norme alle quali si riferisce. Notate che lo stesso ministro ha invocato, e questo è il caso più grave e singolare, l’articolo 34 della Costituzione. Ha detto: “questo assegno familiare a queste persone che mandano i loro figli alla scuola privata, la Costituzione lo permette: c’è l’articolo 34”. L’articolo 34, dopo aver enunciato che i capaci ed i meritevoli hanno diritto di ricevere l’istruzione anche la più elevata, aggiunge che per rendere effettivo questo diritto la repubblica istituisce borse di studio, assegni alle famiglie, ed altre previdenze, che devono essere attribuite per concorso.
Ma cosa centra l’articolo 34 con gli assegni familiari? Questo articolo prevede solo che ci siano giovani che hanno speciali attitudini per continuare gli studi ed a costoro si debbano fornire i mezzi per concorso. Qui si tratta di cambiare le carte in tavola.
Dunque questo giuoco degli assegni familiari sarebbe, se fosse adottato, una specie di incitamento pagato a disertare le scuole dello stato e quindi un modo indiretto di favorire certe scuole, un premio per chi manda i figli in certe scuole private dove si fabbricano non i cittadini e neanche i credenti in una certa religione, che può essere cosa rispettabile, ma si fabbricano gli elettori di un certo partito.
Poi, nella riforma, c’è la questione della parità.
L’articolo 33 della Costituzione nel comma che si riferisce alla parità, dice: “La legge, nel fissare diritti ed obblighi della scuola non statale, che chiede la parità, deve assicurare ad essa piena libertà, un trattamento equipollente a quello delle scuole statali”.
Come sapete, questa parola parità venne fuori anche qui da un compromesso politico. Si parlò prima di pareggiamento, di parificazione, parole che avevano un certo significato preciso, poi, nell’articolo della Costituzione la parola parità.
Parità, sì, ma bisogna ricordarsi che prima di tutto, prima di concedere la parità, lo stato, lo dice lo stesso articolo 33, deve fissare i diritti e gli obblighi della scuola a cui concede questa parità, e ricordare che per un altro comma dello stesso articolo, lo stato ha il compito di dettare le norme generali sulla istruzione. Quindi questa parità non può significare rinuncia a garantire, a controllare la serietà degli studi, i programmi, i titoli degli insegnanti, la serietà delle prove. Bisogna insomma evitare questo nauseante sistema, questo ripugnante sistema che è il favorire nelle scuole la concorrenza al ribasso: che lo stato favorisca non solo la concorrenza della scuola privata con la scuola pubblica ma che lo stato favorisca questa concorrenza favorendo la scuola dove si insegna peggio, con un vero e proprio incoraggiamento ufficiale alla bestialità.
Nella relazione della riforma è venuta fuori un’altra idea ed un altro paragone giuridico.
Il ministro Gonella ha un cattivo avvocato che lo consiglia, perché tutte le volte che parla di cose giuridiche dice cose che non hanno alcun fondamento. Nella relazione si dice che siccome nella Costituzione c’è il diritto alla scuola privata, per effetto di ciò (sono parole della relazione), si deve ritenere che ormai, per aprire una scuola privata non vi sia più bisogno della autorizzazione preventiva, la quale d’ora in avanti potrebbe essere sostituita dalla “notifica”, analogamente a quanto è stabilito dalla legge sulla stampa. In altri termini, ogni cittadino e ogni ente che si propone di aprire una scuola privata, dovrà notificare l’apertura alla autorità scolastica e sarà compito di questa di accertare in seguito se sussistono alcune condizioni inderogabili relative sia al soggetto che apre la scuola, sia alla scuola stessa.
Ora, questa questione della libertà della scuola privata che c’entra con la libertà di stampa? In materia scolastica, prima di tutto, c’è il dovere ed il potere dello stato di istituire scuole sue. Lo stato ha il dovere di insegnare, ma non il dovere di pubblicare, di stampare. La stampa può essere un’attività riservata interamente ai privati. Ma la scuola prima di tutto deve essere una attività, una funzione che lo stato svolge da sé, deve svolgere in quel modo che ho detto, e l’attività privata scolastica è solo un complemento di quella dello stato. È lo stato che deve istituire scuole, è lo stato che stabilisce il livello scolastico degli studi e si accerta che le altre scuole corrispondano a questo livello. E poi, vedete, anche nel paragone alla libertà di stampa c’è il trucco avvocatesco. L’articolo 21 che dice: la stampa non può essere soggetta a limitazione, non esclude che le leggi stabiliscano per la stampa una quantità di limitazioni preventive.
Neanche per la stampa è sempre vero che questo diritto si possa esercitare senza alcuna autorizzazione preventiva, ma soltanto con una notifica.
Ora, non c’è un articolo che dica che la scuola privata non può essere soggetta a limitazioni.
La riforma della scuola merita una discussione approfondita e serena. Di fuori si vede una quantità di belle cose. Fumo, scenari, inchieste, questionari. Una grande commissione ha lavorato. Hanno preso un palazzo ed in questo palazzo hanno lavorato intensamente. Passando di là si vedevano luci sempre accese e facevano ricordare le luci di Palazzo Venezia quando si passava sotto le finestre.
Però questa riforma mi dà l’impressione di quelle figure che erano di moda quando ero ragazzo. In quelle figure si vedevano foreste, alberi, stagni, monti, tutto un groviglio di tralci e di uccelli e di tante altre belle cose e poi sotto c’era scritto: trovate il cacciatore. Allora, a furia di cercare, in un angolino, si trovava il cacciatore con il fucile spianato. Anche nella riforma c’è il cacciatore con il fucile spianato. È la scuola privata che si vuole trasformare in scuola privilegiata. Questo è il punto che conta. Tutto il resto, cifre astronomiche di miliardi, avverrà nell’avvenire lontano, ma la scuola privata, se non state attenti, sarà realtà davvero domani. La scuola privata si trasforma in scuola privilegiata e da qui comincia la scuola totalitaria, la trasformazione da scuola democratica in scuola di partito.
E poi c’è un altro pericolo forse anche più grave. È il pericolo del disfacimento morale della scuola.
Questo senso di sfiducia, di cinismo, più che di scetticismo che si va diffondendo nella scuola, specialmente tra i giovani, è molto significativo. È il tramonto di quelle idee della vecchia scuola di Gaetano Salvemini, di Augusto Monti: la serietà, la precisione, la onestà, la puntualità. Queste idee semplici. Il fare il proprio dovere, il fare lezione. E che anche la scuola sia una scuola del carattere, formatrice di coscienze, formatrice di persone oneste e leali. Si va diffondendo l’idea che tutto questo è superato, che non vale più. Oggi valgono appoggi, raccomandazioni, tessere di un partito o di una parrocchia. La religione che è in sé una cosa seria, forse la cosa più seria, perché la cosa più seria della vita è la morte, diventa uno spregevole pretesto per fare i propri affari.
Questo è il pericolo: disfacimento morale della scuola. Non è la scuola dei preti che ci spaventa, perché cento anni fa c’erano scuole di preti in cui si sapeva insegnare il latino e l’italiano e da cui uscirono uomini come Giosuè Carducci. Quello che soprattutto spaventa sono i disonesti, gli uomini senza carattere, senza fede, senza opinioni. Questi uomini che dieci anni fa erano fascisti, cinque anni fa erano a parole antifascisti, ed ora son tornati, sotto svariati nomi, fascisti nella sostanza cioè profittatori del regime.
E c’è un altro pericolo: di lasciarsi vincere dallo scoramento. Ma non bisogna lasciarsi vincere dallo scoramento. Vedete, fu detto giustamente che chi vinse la guerra del 1918 fu la scuola media italiana, perché quei ragazzi, di cui le salme sono ancora sul Carso, uscivano dalle nostre scuole e dai nostri licei e dalle nostre Università. Però guardate anche durante la Liberazione e la Resistenza che cosa è accaduto. È accaduto lo stesso. Ci sono stati professori e maestri che hanno dato esempi mirabili, dal carcere al martirio. Una maestra che per lunghi anni affrontò serenamente la galera fascista è qui tra noi.
E tutti noi, vecchi insegnanti abbiamo nel cuore qualche nome di nostri studenti che hanno saputo resistere alle torture, che hanno dato il sangue per la libertà d’Italia.
Pensiamo a questi ragazzi nostri che uscirono dalle nostre scuole e pensando a loro, non disperiamo dell’avvenire.
Siamo fedeli alla Resistenza. Bisogna, amici, continuare a difendere nelle scuole la Resistenza e la continuità della coscienza morale.”



domenica 11 settembre 2011

“Con questi criteri di valutazione la ricerca perde fiducia in se stessa”, di Tullio Gregory

L’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (Anvur) ha varato, e proposto alla discussione, i «criteri e parametri di valutazione dei candidati e dei commissari dell’abilitazione scientifica nazionale» (nuova formula dei vecchi concorsi). Già Ernesto Galli della Loggia ha indicato sul Corriere alcuni punti assai problematici nei criteri dettati per valutare le pubblicazioni dei candidati, «dettagli» significativi del generale declino del Paese e della sua stessa identità.
Varrà la pena riprendere il discorso, esaminando più da vicino il documento dell’Anvur. Esso afferma di seguire orientamenti condivisi a livello internazionale, ma propone parametri bibliometrici, cioè puramente quantitativi, sui quali proprio la comunità scientifica ha da anni espresso forti riserve. Ricorderemo solo alcune significative e autorevoli prese di posizione. Il Consiglio Universitario Nazionale, nel documento del dicembre 2008, ha escluso la validità di criteri bibliometrici (fondati sull’Impact Factor, ovvero il numero medio di citazioni ricevute in un determinato e breve arco temporale su riviste presenti nelle banche dati citazionali di Isi), per la gran parte delle aree disciplinari, dalla matematica all’informatica, dalle scienze della terra all’ingegneria-architettura, dalle scienze dell’antichità alle discipline filosofiche, storiche, filologiche, giuridiche; più di recente (2011) è tornato a «sottolineare che non è possibile individuare e definire indicatori universali». Nel 2009 una commissione creata dal Consiglio scientifico generale del Cnr, presieduta da Luigi Labruna, proponendo nuovi e più adeguati criteri di valutazione per le scienze umanistiche, ha escluso per esse la validità di criteri bibliometrici e ha sottolineato il carattere non scientifico della banca dati delle riviste Isi (lo stesso va ripetuto per Scopus), trattandosi di prodotti puramente commerciali: la prima è della società Thomson Reuters Corporation, la seconda è degli Elsevier; in queste banche dati si entra non sulla base di valutazioni scientifiche, ma per accordi economici, con accesso a pagamento. Del tutto privo di pretese scientifiche è Google Scholars, grande calderone di libri, riviste e citazioni, facilmente manipolabile e falsificabile. Peraltro il numero delle citazioni non è di per sé indice di qualità: non solo perché le citazioni possono anche essere stroncature (la banca dati non fa differenza), ma anche perché lavori altamente specialistici possono trovare pochi recensori, mentre la loro significatività nei tempi lunghi è assai più incisiva.
In sede internazionale basterà ricordare il documento presentato dall’Académie des Sciences al ministro dell’Istruzione superiore e della ricerca francese (17 gennaio 2011): esso mette in luce, con un dettagliato elenco, tutti gli errori intrinseci all’applicazione di criteri bibliometrici, mostrandone altresì l’inadeguatezza per una corretta valutazione scientifica. Nel marzo 2011 è stato presentato un ampio rapporto della European Sciences Foundation sui criteri di valutazione dei programmi di ricerca nel quale si sottolinea come parametri bibliometrici abbiano un valore del tutto marginale e non possano essere esclusivi o determinanti per la valutazione delle ricerche individuali.
Dunque la comunità scientifica nazionale e internazionale è tutta fortemente critica dei parametri bibliometrici che invece, per l’Anvur, costituiscono parametri da «utilizzare per i candidati all’abilitazione», parametri così precisati: 1) il numero di pubblicazioni censite su Isi o Scopus (o altra base dati di ampia copertura); 2) il numero totale delle citazioni; 3) l’indice h (basato sul numero delle pubblicazioni e sulle citazioni ricevute).
Fortunatamente qualche dubbio deve avere colto i membri dell’Anvur dato che — anche se non detto direttamente — tali parametri non si applicano, almeno per ora, alle discipline storiche, filologiche, filosofiche, antichistiche, giuridiche e sociali (aree 10-14, con alcune eccezioni); per questi settori sarebbe opportuno tener presenti le indicazioni del Cnr.
Preoccupa ugualmente la sicurezza nel proporre parametri quantitativi per tutte le altre aree disciplinari per le quali, abbiamo visto, il Cun aveva escluso la validità. Del resto non sono solo questi i problemi che il documento solleva: al di là del credito dato alle banche dati di Isi e Scopus, assai preoccupante appare la distinzione proposta, fra articoli e monografie in lingua non italiana e quelli in italiano (forse si pensa, ma non si dice, all’inglese), assicurando ai primi una maggiore valutazione. Così una monografia, anche di grande rilevanza, pubblicata in lingua italiana vale meno («peso 1 punto») di una pubblicazione in lingua straniera (peso 1,5: curioso l’uso del termine «peso» per qualificare il valore scientifico di un testo). La stessa definizione di un punteggio massimo per ogni pubblicazione penalizza monografie di più alto valore; meglio sarebbe indicare un punteggio globale per le pubblicazioni, lasciando alle commissioni di valutare le singole opere.
V’è infine l’introduzione di un criterio puramente aziendalistico e manageriale nel «profilo scientifico del professore associato e del professore ordinario»: la capacità «di attrarre finanziamenti»; «almeno in un caso» per l’associato, con una «posizione di leader» per l’ordinario. Come se compito di uno studioso, sua missione, fosse trovare denari e sponsor, e questo possa essere requisito tanto importante da divenire condizione per accedere alla carriera universitaria.
Dettagli? Può darsi, ma siamo qui nel punto più delicato della recente riforma universitaria e si ha l’impressione che il documento dell’Anvur rispecchi un desolato paesaggio nel quale gli stessi protagonisti hanno perduto fiducia nella ricerca libera e disinteressata, accettando un’idea di università come azienda che deve vendere prodotti, valutando i risultati della ricerca in base all’immediato successo, all’ascolto: come si chiede agli spettacoli televisivi, con i noti risultati.

Il Corriere della Sera 10.09.11

venerdì 9 settembre 2011

Come si ri-valuta la ricerca scientifica (Galileo - facebook)

pubblicata da Galileo, giornale di scienza e problemi globali il giorno venerdì 9 settembre 2011 alle ore 13.52

Ripensare la valutazione della ricerca. Basandosi non solo sugli indicatori utilizzati sino ad oggi (numero di brevetti e di pubblicazioni per ricercatore), ma aggiornandoli e progettandone di nuovi, valutando anche il tasso di internazionalizzazione degli scienziati o la collaborazione tra pubblico e privato. In modo che le valutazioni non siano solo frutto della statistica, ma riflettano il reale stato della ricerca europea. Se ne parla in questi giorni alla conferenza Enid (European Network of Indicators Designers), in corso a Roma. Emanuela Reale, dell’Istituto di ricerca sull’impresa e lo sviluppo (Ceris) del Cnr e chair della conferenza, spiega in quale direzione è necessario andare.

Dottoressa Reale, perché è così importante rivedere gli indicatori della produttività scientifica?

“Un indicatore è una misura dell’impegno e dei risultati in ricerca e sviluppo ottenuti da un’università, un istituto di ricerca, un programma o un intero paese. Sostanzialmente, si tratta di un numero estratto da calcoli statistici, ma fornisce elementi che poi guidano le scelte finanziare, e da cui dipendono la visibilità, il prestigio e i premi che un’istituzione riceve. È necessario rivedere continuamente questi indicatori, perché un indicatore sbagliato produce un giudizio sbagliato, che si ripercuote poi sulle politiche della ricerca. Gli studi in questo campo sono in continuo sviluppo, per esempio quello per la valutazione dell’impatto dei programmi internazionali ‘Joint and open’ (promosso dalla Commissione Europea e coordinato dal Cnr, ndr) e quello sull’internazionalizzazione degli organismi che finanziano e svolgono ricerca (promosso dalla European Science Foundation, ndr)”.

Quali sono, oggi, gli indicatori più utilizzati per misurare la produttività scientifica europea?

“I cosiddetti indicatori macro: la spesa per la ricerca sul Prodotto interno lordo, il numero di articoli scientifici pubblicati dai ricercatori rispetto al numero di abitanti di un paese, o il numero di pubblicazioni per ricercatore, per fare degli esempi. Questo tipo di indici possono funzionare per valutare il posizionamento in ricerca e sviluppo di un paese, ma non possono essere utilizzati per valutare la produttività a livello delle singole istituzioni, o addirittura a livello di singoli programmi di ricerca”.

E quali sono, secondo lei, quelli che dovrebbero essere ripensati?

“Uno degli aspetti da rivedere è quello dell’internazionalizzazione dei ricercatori, ovvero il movimento degli scienziati all’interno dell’Unione Europea e verso l’estero. Questo è un indicatore che in un certo senso penalizza l’Italia. Mi spiego. Se si considera la produttività in termini di articoli per singolo ricercatore, i valori del nostro paese sono abbastanza buoni, anche se è bene sottolineare che in genere si tratta di una produttività concentrata in pochi gruppi. Lo scenario, però, cambia molto se consideriamo il numero di articoli per abitanti. In questo caso infatti l’Italia è dietro al resto d’Europa, dove in media ci sono 6,1 ricercatori ogni mille lavoratori, contro i 3,8 che abbiamo in Italia. Un indicatore che tenga conto dell’internazionalizzazione potrebbe modificare questo scenario, considerando che i nostri scienziati si muovono molto verso altri paesi. Purtroppo la situazione è asimmetrica: pochi sono i cervelli che arrivano nel nostro paese”.

Quali altri indicatori sono stati discussi nel corso dei lavori?

"La conferenza ha posto l’accento anche sull’importanza di valutare il contributo delle collaborazioni tra pubblico e privato, per capire quanto gli indicatori bibliometrici di pubblicazioni di questo tipo siano effettivamente rappresentativi della collaborazione medesima. Questo è particolarmente importante per le agenzie finanziarie, perché consente loro di capire l’effetto di alcuni programmi di finanziamento che hanno avviato, sia che riguardino un prodotto o un progetto di ricerca. Infine sono stati analizzati i sistemi per valutare il prestigio delle università, i cosiddetti university rankings e nuovi approcci per riconoscere la produttività scientifica dei piccoli paesi”.

Come vengono recepite le innovazioni in materia di indicatori della produttività scientifica?

“Prima che un nuovo indicatore venga recepito e applicato è necessario che superi diverse fasi: una serie di test, per capire se può essere compatibile con altri valori di produttività scientifica e se è in grado di riflettere il fenomeno per cui deve essere utilizzato. Solo dopo può essere applicato; di solito, la prima a farlo è l’Unione Europea, poi a cascata, i diversi governi”.


venerdì 2 settembre 2011

OBIETTIVO VERO: DEPOTENZIARE L'UNIVERSITA'

 

Gelmini, i danni della riforma fantasma

Una efficace campagna di (dis)informazione ha diffuso l’idea che questo governo abbia varato una epocale riforma dell’università. Ma ad oggi per l'attuazione della "riforma" Gelmini mancano 38 decreti: il governo non ha soldi né fretta, quel che gli interessa è depotenziare l'università.


di Guglielmo Forges Davanzati, da www.sbilanciamoci.info
Si può supporre che, in mancanza di adeguata informazione, gran parte dell’opinione pubblica sia convinta che questo governo abbia realizzato un’epocale riforma dell’università italiana, riducendone gli sprechi, combattendo le baronie e i nepotismi. Una campagna mediatica molto ben organizzata ha convinto molti che l’università italiana è un luogo nel quale la principale occupazione dei professori è dare posti di lavoro a parenti. Sia ben chiaro che questi casi esistono, ma sia altrettanto chiaro che sono del tutto marginali e stigmatizzati dalla stessa comunità accademica.




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giovedì 1 settembre 2011

L'Università e la Scuola possono essere considerate come un bene pubblico?

"... In economia un bene pubblico deve essere caratterizzato dalle due seguenti condizioni:  
Assenza di rivalità nel consumo - il consumo di un bene pubblico da parte di un individuo non implica l'impossibilità per un altro individuo di consumarlo, allo stesso tempo (si pensi ad esempio a forme d'arte come la musica, o la pittura). 
Non escludibilità nel consumo - una volta che il bene pubblico è prodotto, è difficile o impossibile impedirne la fruizione da parte di consumatori (si pensi ad esempio all'illuminazione stradale).
Ci conviene attenerci a questa definizione per non porci in contrasto con tutta la tradizione internazionale dell'economia pubblica alla quale tra l'altro dovremmo ricorrere.
Il fatto che un bene non sia un bene pubblico puro non implica che esso non debba essere prodotto da un ente pubblico ove ve ne siano le condizioni."



Ma in definitiva se l'Università e la Scuola se anche non possono essere considerate come "beni pubblici puri" sono almeno "beni comuni"?  
 

In tale ottica si propone la lettura del seguente articolo pubblicato in rete nel 2009 da Lorenzo Caselli - Docente di Economia e Gestione delle Imprese e di Etica Economica  all’Università di Genova ove è stato Preside della Facoltà di Economia  dal 1990 al 2002. E' Vice Presidente della sezione italiana di EBEN (European Business Ethics Network) e membro del comitato scientifico e consiglio direttivo di Econometica (Consorzio interuniversitario per lo studio dell'etica economica). Ha fondato e dirige la rivista on line "ImpresaProgetto". E' autore di numerose pubblicazioni in tema di teoria dell'impresa e dell'organizzazione; grandi imprese, imprese pubbliche e rapporti tra imprese; economia e organizzazione del lavoro, relazioni industriali e sindacali; studi regionali; non profit ed economia sociale; democrazia economica; istruzione e apprendimento; rapporti tra etica, economia e scienza. E’ stato Presidente nazionale del Meic (Movimento ecclesiale di impegno culturale) dal 1996 al 2002.  

"Conviene partire dal concetto di bene comune. Esso non è la semplice sommatoria di beni e interessi individualistici. Deve invece essere considerato come un bene sociale, un bene che le persone condividono grazie alla loro attiva partecipazione alla vita della comunità. La Gaudium et Spes ci ricorda che il bene comune si concretizza nell’insieme delle condizioni che permettono tanto ai gruppi quanto ai singoli membri di raggiungere la propria perfezione in maniera piena e spedita.
Tra bene comune - o dalla società che ha bisogno di una scuola valida ed efficace - e bene personale - o della singola famiglia che investe nell’ educazione del proprio figlio - esiste un’intima relazione, pur nell’intrinseca diversità. Il bene comune è quella condizione sociale che rende possibile una vita umanamente ricca a partire dai banchi della scuola. Il bene personale è questa vita piena che i membri della comunità (anche scolastica) vivono in una prospettiva di progressiva autoresponsabilità.
Nella scuola il rapporto educativo è il fattore primario e originale che innesca e sviluppa il bene comune e il bene personale. Ciò nella misura in cui il rapporto educativo - fondativo della scuola - è capace di esprimersi nella sussidiarietà, nella solidarietà, nella partecipazione e tendere nel contempo alla verità, alla libertà, alla giustizia. Ogni scuola – come ogni corpo intermedio - ha qualcosa di originale da offrire alla comunità. L’interdipendenza che lega maestri, alunni, famiglie, istituzioni è finalizzata alla crescita di tutti a partire dai più deboli e, tra questi, i bambini immigrati sempre più numerosi nelle nostre scuole.
La scuola è un bene comune che guarda al futuro. Se il nostro Paese non sceglie di investire in educazione ha già rinunciato a crescere, non solo economicamente. Ma l’educazione vive di tempi lunghi: non basta un emendamento introdotto in finanziaria o una misura estemporanea. L’educazione ha bisogno di un respiro ampio, di un comune sentire, di uno sguardo attento sia ai mutamenti in atto sia ai bisogni vecchi e nuovi di tutta la società civile. La questione non è tanto bipartisan quanto prepartisan.
Oggi, di fronte all’evoluzione del quadro istituzionale del nostro Paese, il cammino che la scuola italiana ha di fronte è difficile e impegnativo, ma non impossibile. Prendo a prestito da De Martin e da Pajno alcune riflessioni al riguardo. “La riforma del titoloV da un lato costituzionalizza l’autonomia scolastica e dall’altro la salvaguarda come autonomia funzionale, anche rispetto alle autonomie territoriali”.“L’autonomia scolastica è la trama unificante che fa interagire la riforma della scuola con quella più ampia delle istituzioni del Paese”.
Nell’ambito del federalismo solidale- così come previsto dalla nostra carta costituzionale - vi è la possibilità di una circolarità virtuosa tra la coerenza di sistema (l’interesse nazionale, il bene comune nazionale) e la valorizzazione delle specificità. Tra stato, regioni, autonomie locali e scuole il gioco può non essere a somma zero, ma a somma largamente positiva. Le scuole possono operare come realtà aperte e integrate che nel mentre svolgono la propria funzione educativa, diventano agenti di sviluppo economico e sociale nonché soggetti promotori di cittadinanza. Questa affermazione merita qualche rapido approfondimento.
Sulla scena internazionale, l’Italia non compete soltanto con le sue imprese ma anche con le sue istituzioni, con le sue scuole, università, centri di ricerca. Non a caso si parla di competitività del “sistema paese” e l’istruzione è, al riguardo, un fattore di tenuta e di stimolo di fondamentale importanza.
Esiste una correlazione diretta tra livelli di istruzione e livelli di produttività. Il capitale umano di un paese è decisivo per il suo sviluppo. I paesi all’avanguardia saranno quelli più ricchi di conoscenze e di competenze, rese disponibili per il maggior numero di cittadini. L’Italia, come noto, si trova nella parte bassa della graduatoria. La percentuale di diplomati tra i giovani di età 25-34 anni è del 60%. La media nell’Unione Europea è del 74%. Analogamente la percentuale di laureati, sempre su tale fascia di età, non supera il 12%. La media europea si attesta sul 20%.
Il rapporto tra scuola, mercato del lavoro e mondo delle imprese è certamente problematico. Ciò non sempre o soltanto per i ritardi e le inadempienze delle scuole. In non pochi casi la struttura qualitativa della domanda di lavoro, espressa dalle imprese e anche dalle amministrazioni pubbliche, corrisponde solo in parte all’accresciuto livello di scolarizzazione. Non sempre c’è correlazione tra grado di istruzione e mansioni offerte. Occorre allora attivare, a livello di politica economica e industriale, una circolarità virtuosa tra scuola e base produttiva del Paese. L’Italia non deve costare di meno ma valere di più!
La formazione non è soltanto un importante fattore di competitività, ma è anche e soprattutto un diritto fondamentale di cittadinanza, una garanzia di libertà. La formazione, e quindi la scuola, è strumento di coesione sociale, bene pubblico ma anche relazionale (e quindi comune). E’ momento di regolazione sociale, punto di raccordo tra persona e società, assunta nelle sue molteplici dimensioni (culturali, economiche, politiche, sociali).
A parità di ogni altra circostanza, la probabilità di trovare lavoro aumenta del 2,4% per ogni anno di scuola frequentata. Nel Mezzogiorno tale percentuale sale al 3,2%. L’elevato livello di istruzione consente di ridurre i rischi insiti in percorsi di carriera frammentati e quelli connessi con la perdita dell’ occupazione. Non si trascuri poi il fatto che per i soggetti forti la flessibilità può rappresentare una opportunità. Per i soggetti deboli sicuramente una condanna.
Nel nostro Paese il divario tra la parte “colta” e la parte “incolta” della popolazione è ancora enorme. Moltissime famiglie non sono in grado di sostenere sul piano culturale e motivazionale lo studio dei propri figli. Per una parte considerevole della popolazione scolastica mancano gli strumenti per capire che senso ha andare a scuola e acquisire cultura e professionalità.
Ciò che differenzia nettamente il sistema scolastico italiano è la più elevata dipendenza della carriera scolastica dal background famigliare e in particolare dal grado di istruzione dei genitori. C’è una logica ferrea: i figli di laureati vanno meglio a scuola. Vengono indirizzati nei curricula liceali, ottengono la laurea, fanno esperienze di studio all’estero. Il contrario avviene per i figli di genitori non scolarizzati. Le risultanze che emergono dalle ricerche a nostra disposizione non lasciano adito a dubbi.
Ma la scuola deve essere di tutti. Parlare a tutti, valere la pena per tutti. La dispersione scolastica (in Italia la sua incidenza nella scuola secondaria è pari al 25%) rischia di segnare una persona per tutta la vita. Introduce nel sistema sociale fattori di emarginazione generando disuguaglianze non accettabili.
E dunque, che fare? La nostra carta costituzionale, laddove introduce il concetto di livello essenziale delle prestazioni (LEP), indica la strada da seguire. Con i LEP è in gioco l’esigibilità concreta (in termini di prestazioni e di organizzazione strutturale conseguente) dei “diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” (art. 117, comma 2, lett. M). 
E’ questo un modo, quanto mai significativo e incisivo, per dare corpo al principio di uguaglianza sostanziale sancito dall’art. 3 della Costituzione: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana”.
Quindi, con riferimento alla scuola, credo che la risposta debba stare nella possibilità effettiva da parte di ciascuno di accrescere il proprio valore sociale coerentemente con le proprie caratteristiche e volontà, al fine di essere membro a pieno titolo della realtà sociale ed economica. Si tratta di garantire a tutti e a ciascuno la possibilità di scegliere il proprio percorso formativo e la propria scuola, ottenendo un sostegno adeguato per trasformare le potenzialità personali in competenze.
La scuola “bene comune” non può che essere, dunque, la scuola dell’inclusione, la scuola dove si coopera e si dialoga, da persona a persona. E’ la scuola ove si evita la costruzione di nuovi muri tra coloro che possono accedere alla conoscenza, ai saperi che contano, e coloro che rischiano di essere appiattiti su competenze banali. La scuola dell’inclusione è in definitiva la scuola dove si apprende la centralità dell’alterità e dell’intersoggettività nella storia e nella società, in mezzo a tensioni e conflitti tra la unicità e la molteplicità, tra l’universalità e la specificità; tra la globalità e il localismo."