lunedì 26 dicembre 2011

Omaggio a Giorgio Bocca

Messaggio di Giorgio Bocca letto durante la
manifestazione a Milano il 25 aprile 2008
 
Secondo alcuni revisionisti, come il senatore Pera, l’antifascismo è da archiviare tra i robivecchi, e la Resistenza, un mito inventato dai comunisti. Insomma, quelli che come me erano in montagna dall’otto settembre del ’43, e che il diciannove di quel mese erano con Duccio Galimberti a Boves incendiata dalle SS del maggiore Peiper, stavano in un mito. Quarantacinquemila partigiani caduti, ventimila feriti o mutilati, uno dei più forti movimenti di resistenza d’Europa, gli operai e i contadini per la prima volta partecipi di una guerra popolare senza cartolina di precetto, una formazione partigiana in ogni valle alpina o appenninica: ecco che sessantacinque anni dopo dei professorini e dei diffamatori, ci avvertono che era tutta un’invenzione, una favola, un mito. Ma quel mito non se lo sono inventati dei propagandisti politici, quel mito è nato dai fatti di cui parlano le lapidi e i monumenti in ogni Provincia italiana.
La distinzione tra l’antifascismo e la democrazia è una falsa distinzione. Assistiamo a un revisionismo l’antifascismo e la democrazia è una falsa distinzione.
Assistiamo a un reazionario che apre la strada a una democrazia autoritaria. Non a caso, nel presente, la globalizzazione economica è un ritorno al colonialismo, con cui l’antifascismo dello stato sociale, delle riforme democratiche, non ha nulla da spartire. C’è stata una mutazione capitalistica, una rivoluzione tecnologica per cui i ricchi sono sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri ed emarginati. 
Questa è la vera ragione per cui la Resistenza e l’antifascismo appaiono sempre più sgraditi, sempre più fastidiosi al nuovo potere. 
Padroni arroganti e impazienti non accettano più una legge uguale per tutti, la legge se la fabbricano ad personam.  
Così è riapparso il ventre molle del paese, l’eterno qualunquismo che la Resistenza aveva combattuto. Ma siamo ancora qui a ricordare come sono andate le cose nel periodo più nero e umiliante della nostra storia. A ricordare quell’alta pagina di solidarietà e di civile dignità, che si chiama Resistenza.

"in Italia c'è ancora molto fascismo, per quello che bisogna essere ora e sempre ANTIFASCISTI."

giovedì 15 dicembre 2011

Documento unitario - ESTREMA CRITICITA' DELL'UNIVERSITA' PUBBLICA ITALIANA


 ADI, ADU, ANDU, CISL-Università, CNRU, CNU, CoNPAss, FLC-CGIL, RETE29Aprile, SNALS-Docenti Universita, SUN, UDU, UGL-Università, UIL-RUA, USB-Pubblico impiego  
Le Organizzazioni e Associazioni universitarie denunciano lo stato di estrema criticità in cui versa l'Università italiana.
Questa situazione sarebbe destinata a diventare ancora più grave per l'Università pubblica statale se si dovesse proseguire nella politica dei progressivi e costanti tagli al finanziamento dell'Università, nella drastica riduzione del diritto allo studio, nell'aumento a dismisura del numero dei precari con l'espulsione di quelli attuali, nella differenziazione tra gli Atenei (atenei di ricerca e insegnamento e atenei di solo insegnamento), nella cancellazione della partecipazione democratica alla gestione degli Atenei, nell'annullamento della rappresentanza democratica del Sistema nazionale universitario, nel blocco della carriera e della retribuzione dei docenti.
L'opposizione del mondo universitario alla Legge 240/10 esprimeva tutte queste preoccupazioni, assieme alla convinzione che i suoi contenuti e i tempi di attuazione, sommati ai pesanti tagli al finanziamento (diversamente da quanto accade negli altri Paesi), avrebbero portato alla paralisi degli Atenei, così come, purtroppo, sta avvenendo. Peraltro, nelle more dell'attuazione della Legge, il processo di lentissima approvazione degli statuti e il ritardo nella emanazione dei più importanti decreti attuativi accentuano una condizione di blocco che pesa prevalentemente sulle retribuzioni, i diritti, le carriere del personale universitario e lascia gli studenti nell'incertezza dell'offerta formativa per i prossimi anni.
 Da parte loro, le Organizzazioni e Associazioni universitarie - convinte che il Paese abbia bisogno di una Università pubblica, autonoma, democratica, di qualità e aperta a tutti – hanno denunciato da tempo quanto stava accadendo e, in particolare:
- l'ulteriore divaricazione fra pochi Atenei 'eccellenti' e tutti gli altri; 
- la scarsa considerazione delle esigenze della ricerca; 
- il ridimensionamento della già ridotta autonomia degli Atenei;
- lo snaturamento del diritto allo studio, con la drastica riduzione dei fondi ad esso destinati, il tentativo di tagliare a migliaia di studenti idonei la borsa di studio e l'introduzione dei prestiti d'onore e di altri strumenti di indebitamento.
- il drastico ridimensionamento dei docenti di ruolo, con la costituzione di una 'base' amplissima di precari, senza reali prospettive di accesso alla docenza;
- le conseguenze della messa ad esaurimento dei ricercatori, senza neppure il riconoscimento del ruolo docente, senza adeguati sbocchi e con una diminuzione della retribuzione rispetto a quella degli ordinari;
- lo svilimento della figura dell'associato, trasformata in affollata fascia d'ingresso alla docenza, senza prospettive di carriera e con una diminuzione della retribuzione rispetto a quella degli ordinari;
- il ridimensionamento del ruolo del personale tecnico-amministrativo.
Ma oltre ai contenuti della Legge approvata, le critiche sono state rivolte anche alla totale chiusura al confronto che ha caratterizzato tutta l'azione del precedente Ministro; una indisponibilità che è proseguita nel corso dell'elaborazione dei decreti attuativi.
Con questi decreti si sta attentando alla libertà di ricerca e di insegnamento e si sta consentendo che i Ministri dell'Economia e dell'Università e l'ANVUR  possano commissariare gli Atenei e decidere la nascita, la vita e la morte delle strutture universitarie.
L'azione del Ministero volta a ridurre i già limitati spazi di democrazia si è espressa pesantemente nel tentativo di cancellare dagli Statuti quelle norme che consentirebbero una più ampia partecipazione democratica.
Di fronte a tutto ciò chiediamo al Governo e al Parlamento una inversione di marcia rispetto alle scelte finora operate, riconoscendo il ruolo fondamentale dell'Università per lo sviluppo sociale e economico del Paese.
In questa direzione, chiediamo interventi per rendere democratici gli Atenei e realmente autonomo il Sistema nazionale universitario.
Chiediamo infine che il nuovo Governo avvii con urgenza un costante confronto con le  Organizzazioni e Associazioni universitarie e sollecitiamo il Ministro a dare risposta alla nostra richiesta di incontro.
Roma, 13 dicembre 2011

venerdì 9 dicembre 2011

Europa 2020 prevede nuovi traguardi apparentemente irragiungibili per il nostro Paese (se continua ad avere obiettivi di segno opposto)


La Commissione Europea nel piano strategico denominato Europa 2020 ha individuato cinque assi di intervento ritenuti chiave per rilanciare l’economia comunitaria – occupazione, ricerca e sviluppo, clima ed energia, lotta alla povertà e istruzione – fissando per ciascuna linea di azione degli obiettivi molto concreti da raggiungere entro il 2020. Nel settore che qui interessa, quello dell’istruzione, i paesi UE sono chiamati a:
- ridurre il tasso di abbandono scolastico a meno del 10% nella popolazione di età compresa tra i 18 e i 24 anni;
- conseguire una percentuale di laureati pari almeno al 40% nella fascia di età tra i 30-34 anni.


L’Italia è molto lontana da entrambi i traguardi. I giovani (fra i 30-34 anni) in possesso di un diploma di laurea sono il 19% contro una media europea del 30%, dietro di noi si posizionano soltanto la Slovacchia, la Romania e la Repubblica Ceca (Fig. 1). Il livello di istruzione è senza dubbio cresciuto nella popolazione italiana – basti osservare che nella fascia di età 55-64 anni i laureati raggiungono a stento il 10% – ma è altrettanto indubbio che i passi compiuti dal nostro paese sono modesti se comparati a quelli di altri paesi, i “cugini” Francia e Spagna in testa.

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giovedì 1 dicembre 2011

INCREDIBILE: dopo anni un intervento sensato attinente i problemi dell'Università pubblicato dal quotidiano locale "Messaggero Veneto"

 

"Messaggero Veneto"
GIOVEDÌ, 01 DICEMBRE 2011
 Pagina 39 - Cronache

Atenei, il “problema” di avere tanti studenti
 
di RINALDO RUI - preside della facoltà di Scienze matematiche, fisiche e naturali dell’università di Trieste

Le soluzioni a questa spirale perversa sono tecniche, le scelte sono politiche, e passano attraverso un intervento serio e ragionato a livello nazionale e regionale. Scrivo prendendo spunto da alcuni avvenimenti accaduti recentemente nelle nostre due università della regione Fvg. Mi riferisco in particolare alle notizie relative all’aumento degli immatricolati, notizie riportate con grandissima enfasi, una sorta di gara tra i campanili (tanto per cambiare), e così di campanile in campanile le notizie si propagano per dare sorrisi e gioia agli abitanti di questa regione. Più tardi però, nelle riunioni in ateneo accade il contrario. Si piange perché a Udine i troppi studenti hanno finito per portare l’ateneo sopra la soglia del 20% di spesa per tasse studentesche, mentre a Trieste invece hanno contribuito a non rispettare alcuni “requisiti minimi” di docenza. In entrambi i casi la penalizzazione nasce da una serie di decreti ministeriali che impediscono, ai nostri atenei in particolare, di aumentare il numero di studenti. Perché? Provo a rispondere con un esempio. Esiste un limite di legge nel rapporto tra studenti e docenti e i decreti ministeriali impongono in genere che i corsi di laurea abbiano 100 studenti. Ma se gli studenti sono meno di 50 il corso deve chiudere, e se sono più di 150 servono il doppio dei docenti, che l’ateneo non ha. Per evitare di essere penalizzati l’ateneo dovrebbe poter “anticipare” le scelte dei giovani studenti, cosa impossibile, se non negli incubi di Orwell. C’è però una soluzione semplice: imporre il numero chiuso, definito con eufemismo dai nostri governanti «accesso programmato» per i corsi più appetibili (che non vuol dire fatti bene), e chiudere i corsi con pochi studenti (che non vuol dire fatti male), in entrambi i casi riducendo il numero di studenti. Gli atenei lo stanno già facendo; qualche anno fa c’era solo il corso di laurea in medicina “chiuso”, ora ce ne sono almeno una dozzina per ateneo, e addirittura alcuni atenei stanno progettando di farlo per tutti i corsi di studio. In questo modo viene meno il concetto di «Università pubblica», o «popolare», quella in cui gli studenti si iscrivevano ai corsi di laurea che liberamente sceglievano secondo le loro inclinazioni, mentre gli atenei cercavano di adeguare l’offerta didattica alla domanda, pur mantenendo quelle prerogative di qualità che ogni ateneo deve conservare, se non migliorare. Per capirci, se questi decreti fossero esistiti in passato l’Università di Udine non sarebbe mai nata(!), e Trieste non sarebbe la Città della Scienza (non esisterebbero infatti la Sissa, e tutti gli altri enti di ricerca, nati da docenti triestini «in soprannumero»). E così non ostante la qualità dimostrata a livello nazionale, le nostre due Università regionali, impossibilitate ad assumere nuovi docenti (solo a Trieste ci sono trenta vincitori di concorsi che non possono essere assunti), dovranno avere meno studenti, e quindi meno docenti, e quindi... Con buona pace delle "splendide" notizie di cui sopra. C’è un modo per fermare questa spirale? Le soluzioni sono tecniche, le scelte sono politiche, e passano attraverso un intervento serio e ragionato a livello nazionale e regionale. Ma per farlo ci vorrebbe un’idea di società, ovvero di una cosa che al momento pare “smarrita”.