domenica 29 gennaio 2012

L'Europa, con i suoi obiettivi educativi, è ancora lontana

Secondo l'Istat per quasi un italiano adulto su due il titolo di studio più alto resta il diploma di terza media. È quanto emerge dalle schede del compendio annuale 2011 dal titolo 'Noi Italia', il 47,2% della popolazione in eta' compresa tra i 25 e i 64 anni ha conseguito come titolo di studio piu' elevato soltanto la licenza di scuola media inferiore, valore che - nel contesto europeo - colloca il nostro Paese molto distante dalla media Ue27 (27,9 per cento nel 2009). 
Peggio di noi fanno solo Spagna, Malta, Portogallo. 

Quanto invece alla quota di giovani (18-24enni) con al più la licenza media, che ha abbandonato gli studi senza conseguire un titolo superiore, questa e' pari al 19,2% e colloca il nostro paese in una delle posizioni peggiori nella graduatoria UE27 (media 14,4 per cento nel 2009). 
La partecipazione dei giovani al sistema di formazione dopo il termine del periodo di istruzione obbligatoria è pari all'82,2% nella fascia di eta' 15-19 anni e al 21,3% tra i 20-29enni, rispettivamente 2,7 e 3,8 punti percentuali al di sotto dei valori medi dell'Ue27 (anno 2008).  
Nell'anno scolastico 2007/08, il 12,3% degli iscritti al primo anno e il 3,5% degli studenti del secondo anno delle scuole superiori abbandonano il percorso di studi prescelto senza completare l'obbligo formativo. 
Il 19% dei 30-34enni ha conseguito un titolo di studio universitario (o equivalente), quota cresciuta di 3,3 punti percentuali tra il 2004 e il 2009. 
Tale livello e' tuttavia ancora molto contenuto rispetto all'obiettivo del 40% fissato da "Europa 2020". I giovani Neet (Not in Education, Employment or Training), non piu' inseriti in un percorso scolastico/formativo, ma neppure impegnati in un'attivita' lavorativa, sono poco piu' di due milioni, il 21,2% tra i 15-29enni (anno 2009), la quota piu' elevata a livello europeo. 
Gli adulti impegnati in attivita' formative, un elemento considerato cruciale nella lotta contro l'esclusione sociale, sono il 6% del totale nel 2009, meno della meta' rispetto al livello obiettivo da perseguire entro il 2010 secondo la strategia di Lisbona (12,5 per cento).
Certamente tramite il Censimento Istat 2011 si potrà disporre di un quadro meglio definito, dovremo però aspettare la rielaborazione dei dati. 
Comunque, resta incomprensibile il fatto che la classe dirigente del nostro Paese abbia deciso di ridurre i finanziamneti all'Università e all'Istruzione, quando a partire da questi avrebbero dovuto porre in essere strategie di segno opposto.










sabato 28 gennaio 2012

Una lettera così non sarà mai sottoscritta dai rettori degli Atenei del FVG. Indovinate perchè ?



Lettera aperta a S. E. il Ministro
dell’Istruzione, dell’Università e
della Ricerca
P.zza Kennedy, 20
00144 R O M A


Signor Ministro,
lo scorso 14 dicembre il Suo Ministero ha diffuso i dati sulla dotazione di Fondo di Funzionamento Ordinario (F.F.O.) assegnata ai singoli atenei pubblici nazionali, elaborati in base al Decreto
Ministeriale emanato dal Suo predecessore. La cosiddetta “quota
premiale” del Fondo, quest’anno portata al 12% del totale, comporta, come da normativa, premialità e penalizzazioni finanziarie per gli atenei, cosiddetti, “virtuosi” e “non virtuosi”.
La distribuzione geografica delle due categorie di università è tutt’altro che casuale: se si suddividono i 54 atenei valutati in due
gruppi di pari numerosità, ubicati rispettivamente a nord ed a sud del parallelo passante per Foligno, si ottiene la seguente situazione: dei 27 atenei centro-meridionali solo 2 appaiono, peraltro piuttosto
marginalmente, “virtuosi”, mentre delle 27 università del centro-nord ben 23 rientrano in questa “fortunata” categoria. Questo dato potrebbe prestarsi ad interpretazioni fantasiosamente “antropologiche” (che ci auguriamo Lei voglia rigettare), ma può essere – invece – molto più correttamente interpretato guardando a come è ripartito il totale del Fondo, portando in conto, cioè, il restante 88% (86,5%, al netto della quota di cui all’art.11, c.1, della L. 240/2010).
Il Fondo “storicamente” assegnato dal Ministero ai singoli atenei,
infatti, presenta differenze e sperequazioni assolutamente ingiustificabili, se è vero che l’università meglio finanziata riceve (dati 2010) quasi 6.500 € a studente, mentre la meno supportata deve accontentarsi di poco più di 2.200 €, di circa un terzo, cioè. Come a Lei è ben noto, tali differenze hanno origini, appunto, “storiche”, di molto precedenti alla recente introduzione di criteri meritocratici di premialità, configurandosi quindi come vere e proprie, ingiustificabili, sperequazioni.
E’ evidente che, a fronte di premesse così differenziate, i risultati delle valutazioni di merito sui risultati conseguiti non possono che risentire delle differenti condizioni di partenza. Ed infatti, il confronto tra le due classifiche, di “virtuosità” da una parte e di finanziamento storico dall’altra, risulta particolarmente illuminante: dei 27 atenei sovrafinanzati rispetto alla mediana nazionale (dati 2010) solo 8 hanno sede al centro-sud, e, naturalmente, dei 27 atenei sotto finanziati solo 8 sono del centro-nord.
Da questi dati si può quindi razionalmente, ed inconfutabilmente,
dedurre che, in media, gli atenei che ricevono la maggiorazione di
F.F.O. non sono sovrafinanziati perché “virtuosi”, ma risultano (a
questo punto, solo apparentemente) “virtuosi” (cioè con performance superiori alla media) proprio in quanto già preliminarmente sovrafinanziati!
Tale oggettiva e incontestabile sperequazione, che si ripropone, in
termini sempre peggiori (via via che la cosiddetta quota premiale viene aumentata) da tre anni, ha ormai raggiunto livelli di assoluta
insopportabilità, in quanto sta mettendo in discussione la stessa
sopravvivenza di un sistema universitario nazionale, a servizio
dell’intero paese, e non solo delle regioni centro-settentrionali.
La situazione, già grave, è ulteriormente peggiorata dalle discutibili modalità con le quali sono stati finora definiti i criteri ed i pesi dell’algoritmo di premialità: nel merito, in quanto (ad esempio) nella didattica si premia la facilità di superamento degli esami e non la qualità della formazione ricevuta, e nella ricerca si portano in conto solo alcuni capitoli di finanziamento nazionale ed europeo, e non altri, e si ignorano gli indicatori bibliometrici internazionali di produttività scientifica. E nel metodo, poiché criteri e pesi vengono rivisitati ogni anno, e sempre a posteriori, il che vanifica ogni seria volontà di management by objective da parte degli atenei.
E’ appena il caso di ricordare, inoltre, che alle sperequazioni nella distribuzione del finanziamento ordinario si sommano le enormi differenze tra i livelli di tassazione sopportabili dalle rispettive popolazioni studentesche e tra i contributi offerti, alle università
locali, dai rispettivi territori: in primis da parte degli enti locali e delle fondazioni bancarie, notoriamente molto più ricchi nelle regioni centro-settentrionali di quanto accada nel meridione d’Italia. Di tali differenze dovrà tener conto anche il nuovo criterio di valutazione della sostenibilità economico-finanziaria, destinato a sostituire l’attuale “regola del 90%”, se si vogliono evitare ulteriori
discriminazioni a danno degli atenei ubicati nelle regioni più povere,
premiando (paradossalmente) chi ha potuto e voluto applicare tasse
studentesche più elevate, anche oltre il limite di legge del 20% del
F.F.O..
Siamo naturalmente consapevoli del fatto che tutte le anomalie sovra evidenziate hanno cause ben precedenti al recentissimo inizio del Suo mandato, e confidiamo nella Sua universalmente apprezzata esperienza e competenza in materia perché voglia al più presto intervenire per porre rimedio a questa situazione, che rischia di trasformare la premialità meritocratica (della cui indifferibile necessità siamo tutti profondamente convinti) in arbitraria discriminazione.

In particolare, le chiediamo di:
- introdurre un contributo standard per studente, a valere su tutto il territorio nazionale, al fine di uniformare in termini equitativi la distribuzione della cosiddetta “quota storica” del F.F.O.;
- stabilire criteri di valutazione della premialità equi, condivisi con la comunità accademica, e – soprattutto – preventivamente noti e stabili su orizzonti temporali pluriennali;
- sospendere, nelle more dell’introduzione del contributo standard
per studente e della definizione del “nuovo sistema” di valutazione, l’applicazione della quota premiale del F.F.O. 2012, che se fosse effettuata “sulla base dei criteri e dei parametri utilizzati nell’anno 2011”, così come preannunciato nella Sua nota del 30/12 u.s., porterebbe ad ulteriori insopportabili esasperazioni delle sperequazioni innanzi denunciate.

E’ appena il caso di farLe notare che tutti questi interventi
sarebbero “a costo zero”: non richiedendo infatti risorse aggiuntive
rispetto a quelle disponibili, che sono – vogliamo ricordarlo –
complessivamente scarsissime, anche a seguito di passate scelte
politiche che hanno deciso di mortificare il sistema universitario in
termini molto più pesanti di quanto sia stato fatto per tutti gli altri
settori pubblici.
Siamo pertanto fiduciosi che Ella vorrà dedicare a questa nostra
istanza l’attenzione richiesta dalla drammaticità della situazione in
cui tanti atenei nazionali, soprattutto – ma non solo – nel Mezzogiorno, versano per motivi assolutamente indipendenti dalla volontà e dall’impegno dei rispettivi organi accademici e del personale tutto: è in gioco la sopravvivenza del sistema universitario pubblico, unico garante dei diritti costituzionali di accesso dei “capaci e meritevoli” ai gradi più alti dell’istruzione e motore di sviluppo dei territori in cui i singoli atenei sono radicati.


giovedì 26 gennaio 2012

Appello al Parlamento e al Governo. Emergenza Università pubblica

Tasse studentesche più alte e abolizione del valore legale del titolo di studio non miglioreranno l’università pubblica italiana.

Approfittando dell’attenzione dell’opinione pubblica verso le “liberalizzazioni” di alcuni settori di attività del nostro Paese come strumento per una loro modernizzazione, in questi giorni è stata rilanciata - con l’adesione di un gruppo di docenti universitari - la proposta di abolire il valore legale del titolo di studio (valevole quindi come condizione di accesso ai concorsi per l’impiego pubblico) e di “liberalizzare” le tasse studentesche (già tra le più alte dell’Europa continentale, specie se in rapporto agli scarsi servizi disponibili ed ai livelli di reddito), affiancandovi un sistema di prestiti agli studenti, da restituire dopo l’ingresso nel mercato del lavoro.

Andando all’essenziale, alla base di queste proposte ci sono alcune idee che non ci sentiamo di condividere. La prima è che l’equità sociale delle opportunità di accesso alla formazione universitaria sarebbe ristabilita dal sistema dei prestiti. E’ evidente che si tratta di una finzione (se non di un inganno): un individuo ‘povero’ indebitato, oggi studente domani (forse) lavoratore, non è uguale a (ne’ libero quanto) un individuo ‘ricco’ senza debiti. Anche quando si sostiene che comunque tasse più alte e prestiti sarebbero un sistema più equo dell’attuale, distorto principalmente dall’evasione fiscale, si finisce per far scontare ai giovani, gravandoli precocemente di debiti, l’incapacità dello Stato nel riscuotere i tributi.

La creazione di un mercato dei titoli di studio, conseguente all’abolizione del loro valore legale, metterebbe poi, secondo i proponenti, le università in una sana concorrenza per la qualità. Anche in questo caso siamo di fronte ad una finzione (se non ad un inganno). Date le posizioni di partenza degli atenei, diseguali e caratterizzate da sottofinanziamento, l’unica concorrenza che scatterebbe fra Università sarebbe appunto per le risorse, con conseguente vantaggio dei gruppi di potere accademico, politico ed economico consolidati che invece, si suppone, dovrebbero essere il bersaglio delle politiche di liberalizzazione nel loro spirito più nobile. Il ‘valore legale’ tenderebbe semplicemente ad essere sostituito dal valore monetario necessario per conseguire il titolo di studio. Le due misure associate produrrebbero un effetto micidiale di stratificazione per censo delle Università, acuendo i già presenti dislivelli territoriali che caratterizzano il nostro sistema universitario nazionale. Abolire il valore legale del titolo di studio significa anche abbandonare l’obiettivo di uno standard nazionale di riferimento per la formazione universitaria: al contrario bisogna intervenire perché tutte le università finanziate dallo Stato rispettino tale standard. Anche l’accento (giustamente) posto sulla centralità del merito nella vita universitaria assumerebbe, alla luce di queste misure, un deciso sapore classista.

Queste proposte implicano quindi una decisa spinta alla privatizzazione di fatto dell’università pubblica e alla restrizione sociale dell’accesso. Accettarle significherebbe anche una resa istituzionale all’inefficienza pubblica in vari ambiti, come il controllo dell’evasione fiscale e della qualità dei servizi pubblici, e del reclutamento nell’impiego pubblico.

Per questo chiediamo alla classe politica che si riconosce nella nostra Costituzione Repubblicana e al Governo di rifiutarle, di non accettare scorciatoie fuorvianti ai problemi del finanziamento e del rilancio del sistema educativo e universitario pubblico, così come di altri ambiti preziosi della produzione culturale del Paese. L’università deve restare una istituzione pubblica centrale e deve riprendere a svolgere tutte le sue funzioni, in primis quella di fornire una formazione critica e qualificata, basata su didattica e ricerca libere, plurali e rigorose, con il più ampio accesso sociale agli studi e alle professioni della ricerca e della docenza. Per poter svolgere questo suo ruolo pubblico all’università non serve mettersi in vendita, ma servono politiche e risorse adeguate.

Per sottoscrivere l'appello clicca QUI

sabato 14 gennaio 2012

Segreto di Stato sul Tunnel dei neutrini; ora si dimette il dg dell'Istruzione





(ANSA) - ROMA, 13 GEN - Il direttore generale del ministero dell'Istruzione Massimo Zennaro ha deciso, in data 10 gennaio 2012, di rassegnare le "proprie dimissioni dall'incarico". Lo ha fatto sapere il ministero. Zennaro si era gia' dimesso il 29 settembre da portavoce dell'allora ministro Mariastella Gelmini per la vicenda del comunicato sul famoso, quanto inesistente, ''tunnel'' Cern-Gran Sasso. Zennaro, pur non essendo l'autore materiale di quel comunicato, se ne era assunto la responsabilita'.  




mercoledì 11 gennaio 2012

ROARS: Tutti i segreti del PRIN 2011


Tutti i segreti del PRIN 2011: quanti progetti saranno finanziati e in quali aree, quanti saranno preselezionati e in quali atenei, che costi esporre, come scegliere il coordinatore. Una guida per risolvere il più grande kakuro di tutti i tempi senza rimanere vittime della “regola del buttafuori” 


Per proseguire nella lettura e/o acquisire il file pdf del dossier clicca QUI

domenica 8 gennaio 2012

OCCORRE RIDARE FIDUCIA AL SISTEMA UNIVERSITARIO E DELLA RICERCA







Sul famoso giornale economico è stato avviato un interessante dibattito che ha preso le mosse da una lettera aperta di Fabio Beltram (direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa) e Chiara Carrozza (direttore della Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa) a cui ha dato risposta tramite una intervista il Ministro Francesco Profumo, commentato da Guido Tabellini e che prosegue con un ulteriore contributo del prof. Dario Braga, prorettore alla Ricerca dell'Università di Bologna.

"Vorrei aggiungere un punto di vista laterale alla discussione aperta sui bandi per il finanziamento alla ricerca universitari (Prin e Firb) dalle pagine di questo giornale dall'intervento dei direttori del Sant'Anna e della Scuola Normale di Pisa.
L'Italia non ha materie prime, non ha petrolio, gas, minerali, eccetera. Ha tuttavia una risorsa primaria rinnovabile, ed ecologicamente sostenibile. Essa è costituita dalla stratificazione della sua cultura classica, dalla sua storia, archeologia, arte, filologia, eccetera. È una risorsa ancora non interamente sfruttata (anzi a volte, si direbbe, persino un po' dissipata). È una risorsa ad ampio raggio e generosamente distribuita su tutto il territorio nazionale. Nessun pezzetto di questo Paese ne è privo e, quel che più conta, essa è diversa e differenziata da Nord a Sud e persino da Est a Ovest. È una risorsa che va studiata, ricercata, estratta, accudita, riparata, raccontata, comunicata, e partecipata. Un bene nazionale.
Che nei Programmi di ricerca di interesse nazionale (Prin) o nel Firb “futuro in ricerca” destinato ai giovani, il tema dei nostri beni culturali – nel senso più ampio del termine – non solo non appaia esplicitamente, ma risulti persino disincentivato è poco comprensibile. Eh sì, perché i bandi Prin e Firb, al momento, richiedono che le ricerche siano indirizzate principalmente (con una penalizzazione del 25% del punteggio se così non è) verso i macroargomenti di Horizon 2020: sanità, evoluzione demografica e benessere, sicurezza alimentare, agricoltura sostenibile, ricerca marina e marittima e bioeconomia, energia sicura pulita ed efficiente, trasporti intelligenti verdi e integrati, clima, efficienza nelle risorse e materie prime, società inclusive innovative e sicure."

Per proseguire la lettura clicca QUI