giovedì 1 settembre 2011

L'Università e la Scuola possono essere considerate come un bene pubblico?

"... In economia un bene pubblico deve essere caratterizzato dalle due seguenti condizioni:  
Assenza di rivalità nel consumo - il consumo di un bene pubblico da parte di un individuo non implica l'impossibilità per un altro individuo di consumarlo, allo stesso tempo (si pensi ad esempio a forme d'arte come la musica, o la pittura). 
Non escludibilità nel consumo - una volta che il bene pubblico è prodotto, è difficile o impossibile impedirne la fruizione da parte di consumatori (si pensi ad esempio all'illuminazione stradale).
Ci conviene attenerci a questa definizione per non porci in contrasto con tutta la tradizione internazionale dell'economia pubblica alla quale tra l'altro dovremmo ricorrere.
Il fatto che un bene non sia un bene pubblico puro non implica che esso non debba essere prodotto da un ente pubblico ove ve ne siano le condizioni."



Ma in definitiva se l'Università e la Scuola se anche non possono essere considerate come "beni pubblici puri" sono almeno "beni comuni"?  
 

In tale ottica si propone la lettura del seguente articolo pubblicato in rete nel 2009 da Lorenzo Caselli - Docente di Economia e Gestione delle Imprese e di Etica Economica  all’Università di Genova ove è stato Preside della Facoltà di Economia  dal 1990 al 2002. E' Vice Presidente della sezione italiana di EBEN (European Business Ethics Network) e membro del comitato scientifico e consiglio direttivo di Econometica (Consorzio interuniversitario per lo studio dell'etica economica). Ha fondato e dirige la rivista on line "ImpresaProgetto". E' autore di numerose pubblicazioni in tema di teoria dell'impresa e dell'organizzazione; grandi imprese, imprese pubbliche e rapporti tra imprese; economia e organizzazione del lavoro, relazioni industriali e sindacali; studi regionali; non profit ed economia sociale; democrazia economica; istruzione e apprendimento; rapporti tra etica, economia e scienza. E’ stato Presidente nazionale del Meic (Movimento ecclesiale di impegno culturale) dal 1996 al 2002.  

"Conviene partire dal concetto di bene comune. Esso non è la semplice sommatoria di beni e interessi individualistici. Deve invece essere considerato come un bene sociale, un bene che le persone condividono grazie alla loro attiva partecipazione alla vita della comunità. La Gaudium et Spes ci ricorda che il bene comune si concretizza nell’insieme delle condizioni che permettono tanto ai gruppi quanto ai singoli membri di raggiungere la propria perfezione in maniera piena e spedita.
Tra bene comune - o dalla società che ha bisogno di una scuola valida ed efficace - e bene personale - o della singola famiglia che investe nell’ educazione del proprio figlio - esiste un’intima relazione, pur nell’intrinseca diversità. Il bene comune è quella condizione sociale che rende possibile una vita umanamente ricca a partire dai banchi della scuola. Il bene personale è questa vita piena che i membri della comunità (anche scolastica) vivono in una prospettiva di progressiva autoresponsabilità.
Nella scuola il rapporto educativo è il fattore primario e originale che innesca e sviluppa il bene comune e il bene personale. Ciò nella misura in cui il rapporto educativo - fondativo della scuola - è capace di esprimersi nella sussidiarietà, nella solidarietà, nella partecipazione e tendere nel contempo alla verità, alla libertà, alla giustizia. Ogni scuola – come ogni corpo intermedio - ha qualcosa di originale da offrire alla comunità. L’interdipendenza che lega maestri, alunni, famiglie, istituzioni è finalizzata alla crescita di tutti a partire dai più deboli e, tra questi, i bambini immigrati sempre più numerosi nelle nostre scuole.
La scuola è un bene comune che guarda al futuro. Se il nostro Paese non sceglie di investire in educazione ha già rinunciato a crescere, non solo economicamente. Ma l’educazione vive di tempi lunghi: non basta un emendamento introdotto in finanziaria o una misura estemporanea. L’educazione ha bisogno di un respiro ampio, di un comune sentire, di uno sguardo attento sia ai mutamenti in atto sia ai bisogni vecchi e nuovi di tutta la società civile. La questione non è tanto bipartisan quanto prepartisan.
Oggi, di fronte all’evoluzione del quadro istituzionale del nostro Paese, il cammino che la scuola italiana ha di fronte è difficile e impegnativo, ma non impossibile. Prendo a prestito da De Martin e da Pajno alcune riflessioni al riguardo. “La riforma del titoloV da un lato costituzionalizza l’autonomia scolastica e dall’altro la salvaguarda come autonomia funzionale, anche rispetto alle autonomie territoriali”.“L’autonomia scolastica è la trama unificante che fa interagire la riforma della scuola con quella più ampia delle istituzioni del Paese”.
Nell’ambito del federalismo solidale- così come previsto dalla nostra carta costituzionale - vi è la possibilità di una circolarità virtuosa tra la coerenza di sistema (l’interesse nazionale, il bene comune nazionale) e la valorizzazione delle specificità. Tra stato, regioni, autonomie locali e scuole il gioco può non essere a somma zero, ma a somma largamente positiva. Le scuole possono operare come realtà aperte e integrate che nel mentre svolgono la propria funzione educativa, diventano agenti di sviluppo economico e sociale nonché soggetti promotori di cittadinanza. Questa affermazione merita qualche rapido approfondimento.
Sulla scena internazionale, l’Italia non compete soltanto con le sue imprese ma anche con le sue istituzioni, con le sue scuole, università, centri di ricerca. Non a caso si parla di competitività del “sistema paese” e l’istruzione è, al riguardo, un fattore di tenuta e di stimolo di fondamentale importanza.
Esiste una correlazione diretta tra livelli di istruzione e livelli di produttività. Il capitale umano di un paese è decisivo per il suo sviluppo. I paesi all’avanguardia saranno quelli più ricchi di conoscenze e di competenze, rese disponibili per il maggior numero di cittadini. L’Italia, come noto, si trova nella parte bassa della graduatoria. La percentuale di diplomati tra i giovani di età 25-34 anni è del 60%. La media nell’Unione Europea è del 74%. Analogamente la percentuale di laureati, sempre su tale fascia di età, non supera il 12%. La media europea si attesta sul 20%.
Il rapporto tra scuola, mercato del lavoro e mondo delle imprese è certamente problematico. Ciò non sempre o soltanto per i ritardi e le inadempienze delle scuole. In non pochi casi la struttura qualitativa della domanda di lavoro, espressa dalle imprese e anche dalle amministrazioni pubbliche, corrisponde solo in parte all’accresciuto livello di scolarizzazione. Non sempre c’è correlazione tra grado di istruzione e mansioni offerte. Occorre allora attivare, a livello di politica economica e industriale, una circolarità virtuosa tra scuola e base produttiva del Paese. L’Italia non deve costare di meno ma valere di più!
La formazione non è soltanto un importante fattore di competitività, ma è anche e soprattutto un diritto fondamentale di cittadinanza, una garanzia di libertà. La formazione, e quindi la scuola, è strumento di coesione sociale, bene pubblico ma anche relazionale (e quindi comune). E’ momento di regolazione sociale, punto di raccordo tra persona e società, assunta nelle sue molteplici dimensioni (culturali, economiche, politiche, sociali).
A parità di ogni altra circostanza, la probabilità di trovare lavoro aumenta del 2,4% per ogni anno di scuola frequentata. Nel Mezzogiorno tale percentuale sale al 3,2%. L’elevato livello di istruzione consente di ridurre i rischi insiti in percorsi di carriera frammentati e quelli connessi con la perdita dell’ occupazione. Non si trascuri poi il fatto che per i soggetti forti la flessibilità può rappresentare una opportunità. Per i soggetti deboli sicuramente una condanna.
Nel nostro Paese il divario tra la parte “colta” e la parte “incolta” della popolazione è ancora enorme. Moltissime famiglie non sono in grado di sostenere sul piano culturale e motivazionale lo studio dei propri figli. Per una parte considerevole della popolazione scolastica mancano gli strumenti per capire che senso ha andare a scuola e acquisire cultura e professionalità.
Ciò che differenzia nettamente il sistema scolastico italiano è la più elevata dipendenza della carriera scolastica dal background famigliare e in particolare dal grado di istruzione dei genitori. C’è una logica ferrea: i figli di laureati vanno meglio a scuola. Vengono indirizzati nei curricula liceali, ottengono la laurea, fanno esperienze di studio all’estero. Il contrario avviene per i figli di genitori non scolarizzati. Le risultanze che emergono dalle ricerche a nostra disposizione non lasciano adito a dubbi.
Ma la scuola deve essere di tutti. Parlare a tutti, valere la pena per tutti. La dispersione scolastica (in Italia la sua incidenza nella scuola secondaria è pari al 25%) rischia di segnare una persona per tutta la vita. Introduce nel sistema sociale fattori di emarginazione generando disuguaglianze non accettabili.
E dunque, che fare? La nostra carta costituzionale, laddove introduce il concetto di livello essenziale delle prestazioni (LEP), indica la strada da seguire. Con i LEP è in gioco l’esigibilità concreta (in termini di prestazioni e di organizzazione strutturale conseguente) dei “diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” (art. 117, comma 2, lett. M). 
E’ questo un modo, quanto mai significativo e incisivo, per dare corpo al principio di uguaglianza sostanziale sancito dall’art. 3 della Costituzione: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana”.
Quindi, con riferimento alla scuola, credo che la risposta debba stare nella possibilità effettiva da parte di ciascuno di accrescere il proprio valore sociale coerentemente con le proprie caratteristiche e volontà, al fine di essere membro a pieno titolo della realtà sociale ed economica. Si tratta di garantire a tutti e a ciascuno la possibilità di scegliere il proprio percorso formativo e la propria scuola, ottenendo un sostegno adeguato per trasformare le potenzialità personali in competenze.
La scuola “bene comune” non può che essere, dunque, la scuola dell’inclusione, la scuola dove si coopera e si dialoga, da persona a persona. E’ la scuola ove si evita la costruzione di nuovi muri tra coloro che possono accedere alla conoscenza, ai saperi che contano, e coloro che rischiano di essere appiattiti su competenze banali. La scuola dell’inclusione è in definitiva la scuola dove si apprende la centralità dell’alterità e dell’intersoggettività nella storia e nella società, in mezzo a tensioni e conflitti tra la unicità e la molteplicità, tra l’universalità e la specificità; tra la globalità e il localismo."

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