mercoledì 19 dicembre 2012

ASSEMBLEA: Tra progetti di federazione e dismissione della ricerca: quale futuro per l'Università di Udine?


Assemblea dell’Università di Udine

Mercoledì 16 gennaio 2013, ore 17 
Piazzale Kolbe 4, Udine  –   Aula A
Tra progetti di federazione e dismissione della ricerca:  quale futuro per l'Università di Udine?
 

Nel quadro delle problematiche aperte dall’attuazione della riforma Gelmini, emerge la ragione vera alla base delle scelte di sottodimensionamento e sottofinanziamento dell’Università italiana che la riforma istituzionalizza e per cui predispone una governance fortemente accentrata nella figura dei rettori e dei direttori generali.

Il progetto di ridimensionamento del settore della formazione superiore e di progressivo svuotamento delle istituzioni accademiche pubbliche, corrispondente ad una netta limitazione del diritto allo studio, si delinea sempre più come piano di ridefinizione dei vari atenei in strutture rivolte alla sola didattica e strutture complete, dove la didattica sia affiancata anche dalla ricerca.

Questa scelta è totalmente sbagliata rispetto alle necessità del Paese e discende solo dalla politica di disimpegno complessivo e smantellamento dello stato sociale che viene perseguita nell’ottica dominante neoliberista.

Il piano di ridimensionamento della spesa pubblica per l’istruzione superiore va respinto. Come suggerito dai colleghi di ROARS (http://www.roars.it/online/universita-e-ricerca-prime-proposte-roars-per-una-discussione/), dobbiamo ricordare che:

  • l’Italia ha solo il 21% di laureati nella fascia 25-34 anni, occupando il 34-esimo posto su 37 nazioni;
  • l’Italia è solo trentunesima su 36 nazioni per quanto riguarda la spesa per educazione terziaria rapportata al PIL;
  • durante la crisi, mentre in 24 nazioni su 31 la spesa complessiva in formazione cresceva in rapporto al PIL, in Italia la spesa non solo è diminuita ma ha subito il calo più pesante di tutte le nazioni considerate ad eccezione dell’Estonia;
  • la spesa cumulativa per studente universitario è inferiore alla media OCSE e ci vede sedicesimi su 25 nazioni considerate;
  • le tasse universitarie sono tra le più alte in Europa: l’Italia è quarta dopo Regno Unito, Paesi Bassi e Portogallo.
In base a questi fatti il progetto da sostenere è completamente opposto a quello perseguito dalla riforma Gelmini e dalle politiche ad essa conseguenti.  Le università non vanno smantellate, bensì potenziate. Le competenze scientifiche esistenti non vanno dismesse, bensì valorizzate. La dislocazione attuale delle sedi universitarie non è un problema, bensì una risorsa che va ampliata e articolata per qualificare ed innalzare il livello di formazione dei giovani. Questa prospettiva, infatti, è l’unica possibile per affrontare le difficoltà crescenti dell’economia globalizzata con gli strumenti di una competenza scientifica diffusa di alto livello.

Nel contesto dello svilimento complessivo delle strutture accademiche, l’Università di Udine sembra purtroppo destinata a diventare un polo satellite di una federazione veneto-friulana di atenei,  un polo destinato alla sola didattica o, al massimo, una sede didattica con qualche marginale attività di ricerca (biotecnologie agrarie?). 

Anche senza nessuna pregiudiziale contrarietà a riassetti organizzativi che prevedano  federazioni di atenei, riteniamo necessario evitare quelle operazioni che, col pretesto della razionalizzazione amministrativa e dell’economia di scala, attuino solo ridimensionamenti netti delle strutture esistenti, compromettendo i loro livelli di incisività qualitativa e quantitativa. 


Vogliamo ribadire che la difesa delle attività scientifiche e delle professionalità che operano a Udine non muove da alcuna spinta localistica, ma riflette solo la ferma convinzione del ruolo centrale che la ricerca scientifica ha nell’istituzione accademica: l’Università ha senso solo se la didattica è strettamente legata alla ricerca.

Le competenze e la sviluppo di scuole in numerose e diverse aree scientifiche sono il patrimonio di oltre 30 anni di lavoro dei ricercatori udinesi, un patrimonio che non può essere dissipato perché, come l’Università pubblica, è un bene comune che ha bisogno solo di continuità.

L’Università di Udine trae la sua ragione d’essere da questa attività di ricerca scientifica e la stessa  città di Udine ne ha tratto e continua a trarne vivacità e stimoli. 


Per difendere tutto ciò, per discutere e trovare le strategie di un movimento, per focalizzare queste tematiche specifiche nel quadro più generale di una risposta alla riforma Gelmini, abbiamo indetto un’ Assemblea aperta a tutti  il 16 gennaio  2013, alle ore 17 presso il polo Kolbe (Aula A, P.le Kolbe 4, Udine).



martedì 18 dicembre 2012

CRUI, CUN e CNSU atenei a rischio chiusura

COMUNICATO CRUI-CUN-CNSU 
(18 dicembre 2012)

La Conferenza dei Rettori delle Università Italiane (CRUI) 
Il Consiglio Universitario Nazionale (CUN) 
Il Consiglio Nazionale degli Studenti Universitari (CNSU)

DENUNCIANO

il taglio di 400 milioni di euro al Fondo di Finanziamento Ordinario per l'anno 2013 che provocherà una situazione di crisi gravissima ed irreversibile per il Sistema Universitario italiano.
A causa di questo ulteriore taglio, successivo ad altri avvenuti nelle precedenti leggi finanziarie, le Università non saranno più in grado di garantire la formazione, la ricerca, i servizi agli studenti e più in generale lo sviluppo tecnologico e culturale del Paese.
I tre Organismi di rappresentanza istituzionale del Sistema Universitario lanciano con forza l'allarme sul collasso che colpirà inevitabilmente la maggior parte degli Atenei italiani se il Senato della Repubblica non provvederà a ripristinare questi 400 mln di euro necessari alla sopravvivenza delle Università già pesantemente sottofinanziate.
CRUI, CUN e CNSU denunciano quella che si sta oggi configurando come una violazione dei diritti irrinunciabili e costituzionalmente garantiti della formazione e della ricerca a solo detrimento del futuro e delle opportunità lavorative delle prossime generazioni.

Il presidente della CRUI: Marco Mancini
Il presidente del CUN: Andrea Lenzi
Il presidente del CNSU: Mattia Sogaro

 

domenica 2 dicembre 2012

Non si può assistere inerti ad una situazione così insostenibile.

Una controriforma che soffoca l'università
APERTURA - Antonio Cavaliere
Eliminare la figura del ricercatore a tempo indeterminato è come immaginare un'università di soli professori, un'amministrazione pubblica fatta di soli dirigenti o un giornale fatto di soli direttori. Così dilaga la precarietà e la fuga dei cervelli
Tra i guasti della riforma Gelmini dell'Università - e delle contestuali politiche di tagli della spesa pubblica -, quello forse più grave tocca le vite di tanti giovani che della ricerca e della didattica universitaria hanno fatto il loro impegno di studi.
La riforma, come è noto agli addetti ai lavori, ha eliminato la figura del ricercatore a tempo indeterminato, sostituendola con quella del ricercatore precario, a tempo determinato. Contestualmente, la logica dei tagli di spesa ha comportato continue riduzioni del fondo di finanziamento universitario - l'ultima è quella pianificata dal cosiddetto governo dei «tecnici» -: con la conseguenza che è sempre più difficile assumere nuovi professori. Non si dica, quindi, che l'abolizione della figura del ricercatore a tempo indeterminato consegue l'obiettivo di «democratizzare» l'Università assumendo tutti nel ruolo dei professori; perché non sono state poste le condizioni strutturali per questo, ma per il contrario, cioè per un sostanziale blocco delle assunzioni. Oltretutto, quell'obiettivo, ammesso che lo si volesse davvero raggiungere, sarebbe già di per sé irragionevole, perché immaginare un'Università di soli professori è come immaginare un'amministrazione pubblica fatta solo di dirigenti, un giornale fatto solo di direttori, e così via: cioè un'organizzazione del lavoro priva di ruoli diversificati. E comunque, se ciò che sta a cuore dei riformatori fosse veramente la libertà del ricercatore, certamente non gioverebbe alla stessa l'aver ridotto i ricercatori, prima stabili, a precari! Il solo vero risultato dell'abolizione del ricercatore a tempo indeterminato è stato quello di aver tolto a giovani studiosi maturi per quel ruolo la possibilità di conseguirlo stabilmente.
I tagli fanno sì che al pensionamento di molti docenti corrisponda l'impossibilità di un ricambio generazionale nell'Università pubblica; e ciò rende sempre più difficile lo stesso svolgimento dei compiti didattici e di ricerca da parte dei docenti, spingendo inesorabilmente gli Atenei verso l'adozione del numero chiuso e, quindi, verso la limitazione del diritto allo studio universitario. Con il risultato di favorire gli interessi privati delle Università private, magari telematiche, dei veri diplomifici sovente di alto costo e pessima qualità.
In tale contesto, suona davvero come una presa in giro l'aver bandito recentemente un concorso nazionale per l'abilitazione alla docenza, laddove non vi saranno i fondi per assumere i docenti; si consideri che già oggi non sono pochissimi i professori che, pur vincitori di concorso, non possono essere assunti dalle Università per mancanza di risorse. E pensare che, secondo i dati ministeriali, sono decine di migliaia gli aspiranti alla prossima abilitazione, ovvero alla disoccupazione!
Ma ciò che più lascia sgomenti è la desertificazione dell'Università dai giovani cervelli che l'infausta riforma - avallata anche dal centrosinistra «democratico» - e la sua pedissequa attuazione da parte dei politicissimi «tecnici» recano con sé. Da sempre l'Università si regge sul lavoro precario e spesso gratuito di giovani cultori della materia; ebbene, per loro la riforma, la sua attuazione «tecnica» e la contestuale politica di tagli lineari, anziché porre fine ad un tale intollerabile stato di cose, hanno significato soltanto più precarietà e gratuità, fino a sancire nei fatti ciò che si dichiara con inquietante cinismo, cioè l'essere un'intera generazione di giovani ormai «perduta».
Di questa generazione perduta fa parte, ad esempio, il cultore della materia al quale non si può dare più un contratto per le attività didattiche integrative che svolge: inizialmente, perché la riforma Gelmini escludeva coloro che non avessero già un reddito di almeno 40.000 euro (avete letto bene, quarantamila annui; nessun neolaureato li guadagna, e se li guadagnasse non avrebbe certo bisogno di un contratto!), e ora, semplicemente, perché non ci sono i fondi. C'è, poi, il dottorando senza borsa - si tratta di circa un terzo dei dottorandi - che, per il suo lavoro di ricerca e di aiuto alla didattica, non solo non riceve un euro, ma deve pagare fino a duemila euro l'anno di tasse d'iscrizione; c'è il dottore di ricerca, che dopo aver investito tre anni e più nell'Università si trova drammaticamente senza sbocchi e per giunta, sostanzialmente, senza la possibilità di spendere altrove il titolo conseguito; e c'è colui che, dopo il dottorato, ha continuato a lavorare nell'Università, magari ricevendo per qualche tempo una retribuzione precaria - assegni di ricerca, borse postdottorato - ed ora, dopo lustri, dico lustri, di lavoro si vede disperatamente precluso un futuro lavorativo.
La conseguenza di tutto ciò è che un professore, ormai, quando si vede davanti un neolaureato promettente e con la passione per la ricerca, se ha un minimo di senso di responsabilità deve prospettargli realisticamente una graticola di un decennio - se va tutto bene! - vissuta precariamente e magari a proprie spese, e, quindi, deve consigliargli di cercare altrove il riconoscimento delle proprie capacità. Con il risultato contrario all'interesse dell'Università e della ricerca: quello della fuga dei cervelli.
E non si pensi che coloro che resisteranno alle frustrazioni del precariato e tenteranno l'abilitazione siano selezionati, con la riforma, secondo criteri di merito! Le farraginose procedure di selezione, frettolosamente e confusamente approntate dalle burocrazie del ministero Profumo, fanno infatti leva sul criterio della quantità di pubblicazioni; bisogna superare la «mediana» per concorrere all'abilitazione. Dunque, pubblicare molto, anche a discapito della qualità; spezzettare i lavori, fare in fretta pur di fare numero: ecco un altro meccanismo «criminogeno», distruttivo della vera ricerca, che richiede naturalmente tempo ed approfondimento. Ma questo sarebbe un altro, lungo discorso.
Non si può assistere inerti ad una situazione così insostenibile. Occorre una mobilitazione dell'intero mondo accademico e della società civile, che esiga una vera e propria rivoluzione copernicana delle recenti politiche dell'Università, per restituire ai giovani studiosi e, quindi, alla didattica e alla ricerca stesse, un futuro.