In particolare, colpisce l’adesione a quella che ormai si sta configurando come una vera e propria moda tra alcuni economisti italiani: proclamare la necessità dell’aumento delle rette universitarie per ottenere un risparmio, udite udite, di almeno 3 miliardi. Qui si tocca l’ennesimo punto dolente, quasi una fissazione per gli autori. Il tutto si fonda sulla presunzione che l’università sia frequentata “soprattutto dai ricchi”, che è obiettivamente una stupidaggine: vera forse se si prendono ad esempio università private come la Bocconi, ma assolutamente falsa se solo si infila il capo nella realtà di una normale, civilissima e affollata università pubblica. E’ soprattutto il ceto medio a pagare le rette universitarie, un ceto medio-basso, che vede nell’università un ascensore sociale fondamentale. Il fatto che questo ascensore funzioni a balzelloni spinge a lavorare sulla qualità e non giustifica la dichiarata necessità di aumentare le rette universitarie.
Una vecchia lezione einaudiana, ormai dimenticata, indicava nell’istruzione e nella formazione una spesa fondamentale per lo stato, un onere irrinunciabile; gli autori invece cercano ormai da tempo, in alleanza e fattiva collaborazione con altri (i fratelli Ichino, ad esempio) di mutare la spesa per istruzione scolastica e università e ricerca in una voce da sottoporre alla logica del profitto. Non c’è profitto in un investimento nella scuola e nell’università, solo l’attesa e la speranza di creare cittadini migliori, più istruiti, consapevoli e coscienti. Poi anche quella quota di insegnanti e formatori necessari a una società industriale evoluta; scienziati, ricercatori e studiosi. L’istruzione è un costo fondamentale e irrinunciabile, non delegabile alle famiglie (che già la pagano versando le imposte all’erario), tanto meno a ipotetici prestiti studenteschi e a improvvisate “fondazioni per il merito”.
L’Italia è l’unico Paese occidentale dove le borse di studio non sono date a tutti gli aventi diritto, dove l’espressione “diritto allo studio” vuole spesso dire tutto tranne che controlli sugli esorbitanti affitti al nero che gli studenti pagano a causa di inesistenti alloggi dedicati, servizi mirati, agevolazioni e sostegni. Invece di intervenire su questi limiti si ripete ormai come un mantra magico che bisogna aumentare le rette universitarie e, per chi non può pagarle, un bel prestito che restituirà se e quando potrà. Non si coglie neppure per un istante l’umiliazione latente in questa formula per chi fosse costretto a chiedere uno di questi prestiti, né si considerano i dubbi e le perplessità che tale sistema ha sollevato laddove è stato applicato per anni (gli Stati Uniti, per esempio). E’ irritante dover insegnare continuamente la lezione liberale a personaggi che liberali si dicono e non sono. Ma soprattutto è desolante vedere che si continua a perseguire la via delle ricettine nazionali, quando tutto intorno a noi, dalla moneta ai comportamenti sociali ci dice che ciò che serve è un governo europeo dell’economia e il superamento di ventisette distinte politiche di bilancio. Gli economisti, felice genìa che ragiona per il futuro restando attaccata al presente in maniera conservatrice, non vedono questo o se lo vedono se lo dimenticano subito.
Non saranno le rette universitarie a salvare l’Italia, né la necessaria lotta a un’evasione fiscale monstre di più di 120 miliardi annui: sarà prendere finalmente coscienza che l’Italia stessa, i suoi sistemi di istruzione, i suoi servizi sociali, la sua pubblica amministrazione sono parte costitutiva di un’Unione europea che o si salva tutta insieme o tutta insieme va a fondo, università compresa. Persino Sarkozy lo ha capito, speriamo lo capiscano anche i progettisti dell’ovvio nostrani.
di Piero Graglia
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