" ... Il debito pubblico italiano è di quasi 2000 miliardi di euro, l’evasione fiscale è stimata essere di circa 300 miliardi di euro ed il finanziamento all’università, è di circa 7 miliardi di euro. Dunque, il “risparmio” sulla spesa per università e ricerca inciderebbe per una frazione irrilevante sul debito pubblico: mi sembra ovvio che non si parte da qui per risanare le finanze del paese. Il problema, casomai, è cercare di rendere questa spesa più efficiente, oltre che di portarla al livello degli altri paesi europei. La decisione di incrementare la spesa per l’università e la ricerca, o di migliorare la sua qualità, è puramente politica ed ha davvero poco a che fare con il fatto che vi sia un debito pubblico 200 volte più grande. E’ infatti chiaro che i capitoli di spesa su cui incidere potrebbero essere altri soprattutto se s’iniziasse a considerare la spesa per l’università e la ricerca come un investimento per le future generazione, e non come una inutile fonte di spreco di risorse."
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giovedì 23 giugno 2011
mercoledì 22 giugno 2011
Subentra a Daniele Livon, nuovo direttore della Direzione generale Università del Miur: Clara Coviello direttore amministrativo.
UN AUGURIO DI BUON LAVORO A DANIELE LIVON E A CLARA COVIELLO CHE SUBENTRA AL VERTICE DELLA AMMINISTRAZIONE DELL'ATENEO.
"... L’incarico, che sarà operativo a decorrere dal primo luglio 2011 e fino al 31 dicembre 2013, è stato deliberato con voto unanime dal Consiglio di amministrazione dell’Università di Udine nella seduta di giovedì 16 giugno, su proposta del rettore Cristiana Compagno, previo parere del Senato accademico. Il passaggio di testimone avviene con Daniele Livon che concluderà il suo incarico ricoperto da novembre 2004 e in procinto di trasferirsi al MiUR alla Direzione generale per l’università, lo studente e il diritto allo studio.
Clara Coviello è stata, dall’ottobre 2009, direttore amministrativo dell’Università di Ferrara, dove, negli anni, ha svolto anche le funzioni di coordinatore dell’Ufficio Supporto al Nucleo di Valutazione, responsabile della Ripartizione ragioneria e contabilità, direttore di Ragioneria e dell’Ufficio di Bilancio." (omissis)
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martedì 21 giugno 2011
sabato 18 giugno 2011
CUN - CRITERI DI VALUTAZIONE E NUOVI SETTORI DISCIPLINARI
Prot. n. 786
Spedito il 9/6/2011
All’On.le Ministro
S E D E
OGGETTO: Proposta su “criteri e parametri per la valutazione” ai fini di cui all’Art 16 comma 3 lettere a) e h) della Legge 30 dicembre 2010, n. 240.
Con specifico riferimento alle valutazioni individuali di cui all’art. 16 della legge 240/10, fermo restando che la responsabilità del giudizio di merito sui candidati, basato sulla valutazione analitica dei titoli e delle pubblicazioni scientifiche, deve essere pienamente assunta dalle commissioni, il C.U.N. sottolinea che la definizione di criteri generali e di parametri suscettibili di misura quantitativa, noti preliminarmente ai candidati e relativamente stabili nel tempo, contribuisce a far sì che le procedure e gli strumenti valutativi usati dalle commissioni siano trasparenti e condivisi dalle comunità disciplinari.
In particolare i parametri di natura quantitativa, ove opportunamente e accuratamente definiti e misurati, dovranno essere impiegati al fine di definire livelli di soglia per la produzione scientifica, al di sotto dei quali un positivo giudizio di merito possa essere formulato esclusivamente in casi eccezionali, associati a risultati di assoluto valore, la cui peculiarità risulti comprovabile mediante evidenze e attestazioni obiettive.
Il C.U.N. ritiene opportuno specificare preliminarmente il significato attribuito ad alcune locuzioni che saranno impiegate nella propria proposta.
Per “criteri” si intendono elementi di giudizio suscettibili di una valutazione di carattere qualitativo e non necessariamente misurabile.
Per “parametri” si intendono quei particolari elementi di giudizio che sono suscettibili di una
quantificazione e quindi possono essere valutati mediante il risultato di una misura.
Per “indicatori” si intendono gli strumenti operativi mediante i quali è resa possibile la quantificazione e quindi la misurazione dei parametri.
Per “valori di riferimento” si intendono quei particolari valori degli indicatori da adottare come soglie il cui superamento appare necessario (anche se non sufficiente) ai fini del conseguimento di una valutazione positiva.
Il C.U.N. ritiene di poter confermare in toto i criteri generali più volte specificati nei propri documenti e ripresi anche dalla normativa in materia di valutazione individuale (da ultimo con il D.M. di applicazione del comma 7 art. 1 della Legge 9 gennaio 2009 n.1, relativo ai parametri da adottarsi nelle valutazioni comparative per il reclutamento di ricercatori universitari). In estrema sintesi tali criteri sono:
- Originalità, carattere innovativo, importanza e rigore metodologico della produzione scientifica
- Congruenza con le tematiche del settore e/o con tematiche interdisciplinari pertinenti
- Rilevanza della collocazione editoriale e diffusione all’interno della comunità scientifica
- Continuità temporale e intensità della produzione scientifica
- Apporto individuale nei lavori in collaborazione
- Varietà anche interdisciplinare delle tematiche trattate.
Ai fini della valutazione della continuità e dell’intensità della produzione si dovrà tener conto dei periodi di motivata e necessaria interruzione o riduzione dell’attività.
Alla luce di detti criteri, il C.U.N. ritiene che i parametri che devono in generale essere utilizzati ai fini
della valutazione della produzione scientifica individuale, senza particolari distinzioni relative alla specificità disciplinare, siano i seguenti:
a) L’entità complessiva della produzione scientifica e la sua distribuzione temporale.
b) L’impatto di singoli prodotti, nonché l’impatto medio e cumulativo del complesso della produzione, sulla comunità scientifica.
c) La rilevanza nazionale e internazionale (media e cumulativa) della collocazione editoriale della produzione scientifica.
d) Il contributo dato dal candidato all’ideazione e/o conduzione delle ricerche e al conseguimento dei risultati.
Per quanto riguarda la misurazione dei parametri, il C.U.N. ritiene opportuno sottolineare che non è possibile individuare e definire indicatori universali, in quanto la tipologia dei prodotti della ricerca, le modalità di pubblicazione e la disponibilità di basi di dati adeguate sono fortemente differenziate a seconda delle aree disciplinari, e talvolta anche all’interno delle singole aree e dei singoli settori, a causa della peculiarità di specifiche discipline e dell’intrinseca eterogeneità di alcune aree.
In ogni caso gli indicatori prescelti devono essere riconosciuti a livello internazionale, almeno per tutte le aree per le quali è praticabile tale confronto, e devono essere periodicamente riconsiderati e adeguati sulla base dell’esperienza e dell’evoluzione delle metodologie valutative.
In relazione ai valori di riferimento che potrebbero essere assunti come soglia per la formulazione di un giudizio positivo, il C.U.N. ritiene che in sede di definizione di tali valori non si possa prescindere da un’indagine accurata, ove possibile suffragata da dati statistici, delle specificità relative a ciascun settore.
Nelle schede che accompagnano questo documento il C.U.N. si è impegnato a formulare, sulla base delle indicazioni dei Comitati d’Area, proposte sia qualitative che quantitative in merito agli indicatori adottabili e ai loro valori di riferimento, distinte per area (e quando necessario per settore), con livelli di articolazione e di specificazione che, per le oggettive difficoltà sopra segnalate, non sono necessariamente gli stessi per tutte le aree.
Il C.U.N. rileva infine che, anche in quei settori in cui è più consolidato l’utilizzo di indicatori bibliometrici come ausilio alla formulazione di giudizi di merito scientifico, la mancanza di una validazione di tali indicatori potrebbe costituire un oggettivo ostacolo al loro impiego.
A tale proposito il C.U.N. ritiene che i valori di riferimento degli indicatori bibliometrici debbano essere validati, anche sulla base di una attenta valutazione delle proposte contenute nel presente documento, dall’ANVUR, in quanto soggetto istituzionale titolato ad accreditare anche sul piano tecnico procedure valutative applicabili al sistema universitario e alle sue componenti.
IL SEGRETARIO IL PRESIDENTE
(firmato ZILLI) (firmato LENZI)
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Criteri, parametri e indicatori per l’abilitazione scientifica nazionale
Spedito il 9/6/2011
All’On.le Ministro
S E D E
OGGETTO: Proposta su “criteri e parametri per la valutazione” ai fini di cui all’Art 16 comma 3 lettere a) e h) della Legge 30 dicembre 2010, n. 240.
Adunanza del 24.05.2011
IL CONSIGLIO UNIVERSITARIO NAZIONALE
Ribadisce in primo luogo, e in coerenza con i numerosi pareri espressi nel corso degli ultimi anni, l’assoluta necessità e importanza della valutazione individuale e collettiva al fine di mantenere e migliorare la qualità del sistema universitario.IL CONSIGLIO UNIVERSITARIO NAZIONALE
Con specifico riferimento alle valutazioni individuali di cui all’art. 16 della legge 240/10, fermo restando che la responsabilità del giudizio di merito sui candidati, basato sulla valutazione analitica dei titoli e delle pubblicazioni scientifiche, deve essere pienamente assunta dalle commissioni, il C.U.N. sottolinea che la definizione di criteri generali e di parametri suscettibili di misura quantitativa, noti preliminarmente ai candidati e relativamente stabili nel tempo, contribuisce a far sì che le procedure e gli strumenti valutativi usati dalle commissioni siano trasparenti e condivisi dalle comunità disciplinari.
In particolare i parametri di natura quantitativa, ove opportunamente e accuratamente definiti e misurati, dovranno essere impiegati al fine di definire livelli di soglia per la produzione scientifica, al di sotto dei quali un positivo giudizio di merito possa essere formulato esclusivamente in casi eccezionali, associati a risultati di assoluto valore, la cui peculiarità risulti comprovabile mediante evidenze e attestazioni obiettive.
Il C.U.N. ritiene opportuno specificare preliminarmente il significato attribuito ad alcune locuzioni che saranno impiegate nella propria proposta.
Per “criteri” si intendono elementi di giudizio suscettibili di una valutazione di carattere qualitativo e non necessariamente misurabile.
Per “parametri” si intendono quei particolari elementi di giudizio che sono suscettibili di una
quantificazione e quindi possono essere valutati mediante il risultato di una misura.
Per “indicatori” si intendono gli strumenti operativi mediante i quali è resa possibile la quantificazione e quindi la misurazione dei parametri.
Per “valori di riferimento” si intendono quei particolari valori degli indicatori da adottare come soglie il cui superamento appare necessario (anche se non sufficiente) ai fini del conseguimento di una valutazione positiva.
Il C.U.N. ritiene di poter confermare in toto i criteri generali più volte specificati nei propri documenti e ripresi anche dalla normativa in materia di valutazione individuale (da ultimo con il D.M. di applicazione del comma 7 art. 1 della Legge 9 gennaio 2009 n.1, relativo ai parametri da adottarsi nelle valutazioni comparative per il reclutamento di ricercatori universitari). In estrema sintesi tali criteri sono:
- Originalità, carattere innovativo, importanza e rigore metodologico della produzione scientifica
- Congruenza con le tematiche del settore e/o con tematiche interdisciplinari pertinenti
- Rilevanza della collocazione editoriale e diffusione all’interno della comunità scientifica
- Continuità temporale e intensità della produzione scientifica
- Apporto individuale nei lavori in collaborazione
- Varietà anche interdisciplinare delle tematiche trattate.
Ai fini della valutazione della continuità e dell’intensità della produzione si dovrà tener conto dei periodi di motivata e necessaria interruzione o riduzione dell’attività.
Alla luce di detti criteri, il C.U.N. ritiene che i parametri che devono in generale essere utilizzati ai fini
della valutazione della produzione scientifica individuale, senza particolari distinzioni relative alla specificità disciplinare, siano i seguenti:
a) L’entità complessiva della produzione scientifica e la sua distribuzione temporale.
b) L’impatto di singoli prodotti, nonché l’impatto medio e cumulativo del complesso della produzione, sulla comunità scientifica.
c) La rilevanza nazionale e internazionale (media e cumulativa) della collocazione editoriale della produzione scientifica.
d) Il contributo dato dal candidato all’ideazione e/o conduzione delle ricerche e al conseguimento dei risultati.
Per quanto riguarda la misurazione dei parametri, il C.U.N. ritiene opportuno sottolineare che non è possibile individuare e definire indicatori universali, in quanto la tipologia dei prodotti della ricerca, le modalità di pubblicazione e la disponibilità di basi di dati adeguate sono fortemente differenziate a seconda delle aree disciplinari, e talvolta anche all’interno delle singole aree e dei singoli settori, a causa della peculiarità di specifiche discipline e dell’intrinseca eterogeneità di alcune aree.
In ogni caso gli indicatori prescelti devono essere riconosciuti a livello internazionale, almeno per tutte le aree per le quali è praticabile tale confronto, e devono essere periodicamente riconsiderati e adeguati sulla base dell’esperienza e dell’evoluzione delle metodologie valutative.
In relazione ai valori di riferimento che potrebbero essere assunti come soglia per la formulazione di un giudizio positivo, il C.U.N. ritiene che in sede di definizione di tali valori non si possa prescindere da un’indagine accurata, ove possibile suffragata da dati statistici, delle specificità relative a ciascun settore.
Nelle schede che accompagnano questo documento il C.U.N. si è impegnato a formulare, sulla base delle indicazioni dei Comitati d’Area, proposte sia qualitative che quantitative in merito agli indicatori adottabili e ai loro valori di riferimento, distinte per area (e quando necessario per settore), con livelli di articolazione e di specificazione che, per le oggettive difficoltà sopra segnalate, non sono necessariamente gli stessi per tutte le aree.
Il C.U.N. rileva infine che, anche in quei settori in cui è più consolidato l’utilizzo di indicatori bibliometrici come ausilio alla formulazione di giudizi di merito scientifico, la mancanza di una validazione di tali indicatori potrebbe costituire un oggettivo ostacolo al loro impiego.
A tale proposito il C.U.N. ritiene che i valori di riferimento degli indicatori bibliometrici debbano essere validati, anche sulla base di una attenta valutazione delle proposte contenute nel presente documento, dall’ANVUR, in quanto soggetto istituzionale titolato ad accreditare anche sul piano tecnico procedure valutative applicabili al sistema universitario e alle sue componenti.
IL SEGRETARIO IL PRESIDENTE
(firmato ZILLI) (firmato LENZI)
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Criteri, parametri e indicatori per l’abilitazione scientifica nazionale
venerdì 17 giugno 2011
Le decisioni del Comitato promotore degli Stati generali
L’ampia partecipazione e la ricchezza dei punti di vista che si sono espressi nel corso delle due giornate di lavoro, nelle plenarie e nelle attività seminariali, hanno prodotto una prima elaborazione sullo stato della conoscenza del nostro paese e sulle prospettive di cambiamento di grande interesse.
Ora si deve sviluppare questo nucleo propositivo iniziale attraverso iniziative articolate, tematiche e/o decentrate, finalizzate ad approfondire i nodi individuati e a definire proposte e azioni utili.
Tutti i soggetti componenti il Comitato Promotore sono, quindi, impegnati a promuovere/ co-promuovere iniziative a livello nazionale e/o territoriale su tematiche specifiche, finalizzate ad approfondire nodi e temi contenuti nel documento di base e nei report conclusivi dei seminari del Forum Nazionale, che saranno considerate parte del percorso degli Stati Generali.
Le iniziative saranno caratterizzate da apertura, collaborazione e confronto, oltre che con le altre organizzazioni che hanno dato vita agli Stati Generali, con tutti i soggetti che condividono i contenuti delle decisioni finora assunte.
I report finali dei lavori contribuiranno alla elaborazione e definizione delle prossime scelte da parte del Comitato promotore nazionale.
Gli approfondimenti tematici ulteriormente sviluppati in queste iniziative specifiche e/o territoriali, costituiranno un importante contributo finalizzato ad ampliare le tematiche su cui il Comitato promotore è impegnato a ricercare la condivisione di tutti i suoi componenti.
Il Comitato Promotore sarà informato preventivamente delle iniziative proposte per la continuazione del percorso degli Stati Generali. Il calendario, le locandine, i report conclusivi e gli atti dei lavori realizzati saranno pubblicati nel Blog degli Stati Generali della Conoscenza.
Nel sito saranno inseriti anche i link delle organizzazioni del Comitato Promotore e loro specifici contributi riferiti agli Stati Generali.
Il Comitato Promotore, sulla base dei contributi delle iniziative territoriali e nazionali, potrà elaborare piattaforme e promuovere mobilitazioni.
Come già deciso e comunicato a conclusione del primo Forum Nazionale, le iniziative si svilupperanno fino all’autunno.
A fine autunno il Comitato promotore nazionale si impegna a fare una prima sintesi di quanto emerso dalle iniziative realizzate e a promuovere un altro appuntamento degli Stati generali per la primavera 2012.
NODI CONDIVISI
Report 4°seminario
“CONOSCENZA, SVILUPPO, LAVORO”
“CONOSCENZA, SVILUPPO, LAVORO”
1. Il sistema produttivo italiano ha un deficit di crescita economica perché ha un deficit conoscitivo: incorpora e domanda poca conoscenza.
2. I sistemi della conoscenza italiani registrano limiti rispetto ai confronti internazionali: pochi laureati, molta dispersione scolastica, divari territoriali, tendenze all'autoreferenzialità.
3. Tra le due situazioni deficitarie si è formato un circolo vizioso che porta il Paese al declino.
4. Il Paese ha di fronte due strade:
a. rassegnarsi al declino e continuare a disinvestire nei sistemi della conoscenza “adeguandoli” a un un sistema produttivo che domanda ancora meno conoscenza;
b. invertire la tendenza e proporre una alternativa di politica economica e industriale e di politica della formazione e della ricerca.
a. rassegnarsi al declino e continuare a disinvestire nei sistemi della conoscenza “adeguandoli” a un un sistema produttivo che domanda ancora meno conoscenza;
b. invertire la tendenza e proporre una alternativa di politica economica e industriale e di politica della formazione e della ricerca.
PROPOSTE EMERSE E AZIONI UTILI DI POLITICA ECONOMICA E INDUSTRIALE
1. Una politica economica che promuova incentivi e sostenga il riposizionamento del sistema produttivo italiano sulla qualità e sulla innovazione.
a. Individuazione dei grandi settori strategici e trainanti ad alta tecnologia, alto valore aggiunto, con alta produttività e che richiedono alte qualifiche. In direzione di questi settori devono essere orientati investimenti e ricerca
b. Promuovere un nuovo modello di sviluppo più equo e sostenibile, nell’ambito del quale realizzare la riconversione ecologica della economia italiana. Si devono promuovere nuovi prodotti, nuovi consumi, nuovi stili di vita.
2. Una politica industriale selettiva, che incentivi investimenti in formazione e ricerca.
La politica industriale deve tener conto della situazione italiana nella quale il tessuto produttivo è prevalentemente composto da piccole e medie imprese che devono crescere in dimensione e aggregarsi per realizzare la massa critica sufficiente per sostenere le politiche di ricerca e sviluppo. Occorre far interagire il sistema universitario della ricerca con le reti di impresa, favorire l’ingresso dei laureati e dei dottori in ricerca nelle imprese, promuovere politiche territoriali legate a innovazioni di prodotto. In questa direzione sono decisive le scelte della pubblica amministrazione (piani regolatori, dei trasporti, sanitari, del ciclo dei rifiuti) che vincolino alla qualità l’intervento delle imprese e selezionino in questo modo le imprese aperte alla innovazione e allo sviluppo della conoscenza, elevando in questo modo la domanda delle imprese di innovazione e conoscenza.
La politica industriale deve tener conto della situazione italiana nella quale il tessuto produttivo è prevalentemente composto da piccole e medie imprese che devono crescere in dimensione e aggregarsi per realizzare la massa critica sufficiente per sostenere le politiche di ricerca e sviluppo. Occorre far interagire il sistema universitario della ricerca con le reti di impresa, favorire l’ingresso dei laureati e dei dottori in ricerca nelle imprese, promuovere politiche territoriali legate a innovazioni di prodotto. In questa direzione sono decisive le scelte della pubblica amministrazione (piani regolatori, dei trasporti, sanitari, del ciclo dei rifiuti) che vincolino alla qualità l’intervento delle imprese e selezionino in questo modo le imprese aperte alla innovazione e allo sviluppo della conoscenza, elevando in questo modo la domanda delle imprese di innovazione e conoscenza.
3. Formazione e ricerca in questo quadro diventano un elemento essenziale per lo sviluppo, una priorità in cui investire, perché diventa indispensabile una maggiore capacità di inclusione e una migliore qualità dei risultati. Occorrono allora politiche fiscali che spostino risorse dalla rendita e della evasione fiscale agli investimenti per cambiare e migliorare i sistemi della conoscenza.
4. Una politica contrattuale coerente con questi obiettivi: nuovi poteri alla contrattazione decentrata per sostenere l’innovazione delle imprese, dei settori e dei territori e per redistribuire gli aumenti di produttività aumentando le retribuzioni dei lavoratori. Occorre potenziare i diritti formativi dei lavoratori, anche attraverso la contrattazione nazionale, e attivare una nuova capacità di contrattare la formazione nei posti di lavoro. Essenziale è la possibilità di ottenere garanzie per la acquisizione di competenze certificate da parte dei lavoratori e per la loro valorizzazione negli sviluppi di carriera e negli inquadramenti professionali.
4. Una politica contrattuale coerente con questi obiettivi: nuovi poteri alla contrattazione decentrata per sostenere l’innovazione delle imprese, dei settori e dei territori e per redistribuire gli aumenti di produttività aumentando le retribuzioni dei lavoratori. Occorre potenziare i diritti formativi dei lavoratori, anche attraverso la contrattazione nazionale, e attivare una nuova capacità di contrattare la formazione nei posti di lavoro. Essenziale è la possibilità di ottenere garanzie per la acquisizione di competenze certificate da parte dei lavoratori e per la loro valorizzazione negli sviluppi di carriera e negli inquadramenti professionali.
PROPOSTE EMERSE E AZIONI UTILI DI POLITICHE DELLA CONOSCENZA
1. Le politiche della conoscenza non devono essere subalterne al mondo economico, né limitarsi a una risposta puramente adattiva alle richieste del sistema produttivo.
Nella relazione con il sistema economico deve sempre prevalere la libertà di ricerca e di insegnamento. A maggior ragione in una situazione come quella italiana in cui il sistema produttivo esprime una domanda di conoscenza insufficiente. L’autonomia e l’efficacia dei sistemi della conoscenza sono quindi essenziali per stimolare e sostenere la domanda di conoscenza del sistema produttivo.
2. La ricerca di base non deve essere contrapposta a quella applicata perché la ricerca libera e disinteressata, anche se non sempre nell’immediato, ha ricadute produttive spesso non prevedibili.
3. L’esigenza di specializzazione e di aumento dei laureati nelle materie scientifiche non è in contraddizione con la crescita diffusa di una solida formazione culturale di base, né deve indebolire gli studi umanistici. Creatività, spirito critico, empatia sono infatti capacità essenziali per l'esercizio della cittadinanza attiva e per lo sviluppo di competenze sempre più richieste dal mondo del lavoro quali l'autonomia decisionale, la capacità di risolvere problemi, di relazione e comunicazione. In questo quadro la qualità della scuola di base è importante anche per lo sviluppo delle competenze utili per il lavoro: formare teste ben fatte e capaci di imparare a imparare attraverso metodologie didattiche interattive (imparare facendo, laboratori…) è determinante per la formazione delle competenze necessarie alla diffusione delle capacità di innovazione.
4. Puntare all’innalzamento diffuso dei livelli di istruzione e mantenere alta la spinta inclusiva dei sistemi della conoscenza: il riposizionamento su qualità e innovazione del nostro sistema produttivo richiede l’aumento delle alte qualifiche professionali che secondo le previsioni europee (CEDEFOP) per il 2020 in Italia dovranno quasi triplicare (dal 13% al 32%).
5. Superare la gerarchia dei saperi e garantire, attraverso l’obbligo d’istruzione a 16 anni e un biennio unitario della secondaria superiore, una scelta degli indirizzi fondata sulla pari dignità dei percorsi e la valorizzazione delle diverse intelligenze, nell’ambito della quale le scelte per i percorsi tecnici e professionali non siano più considerate inferiori e subalterne.
6. Riqualificare la formazione professionale come filiera post obbligo per le qualifiche professionali, l’istruzione e formazione tecnica superiore, la formazione continua.
Occorre inoltre, attraverso la valorizzazione delle competenze della formazione professionale, realizzare e diffondere servizi di accompagnamento al lavoro, bilanci di competenza, integrazione dei percorsi formativi, alternanza scuola lavoro, stage e tirocini.
7. Gli stage devono essere riqualificati come strumento formativo, mettendo fine all’attuale situazione in cui prevale l’utilizzo dei giovani come manodopera a costo zero. Devono essere chiarite le mansioni e gli obiettivi e si devono esercitare forme di controllo, monitoraggio, valutazione. L’apprendistato deve diventare una diffusa forma contrattuale di ingresso al lavoro che porta al contratto indeterminato e nella quale la formazione è assicurata e verificata, dando luogo a competenze certificate e spendibili. Non può invece essere uno strumento utilizzabile per l'adempimento dell'obbligo di istruzione.
Occorre inoltre, attraverso la valorizzazione delle competenze della formazione professionale, realizzare e diffondere servizi di accompagnamento al lavoro, bilanci di competenza, integrazione dei percorsi formativi, alternanza scuola lavoro, stage e tirocini.
7. Gli stage devono essere riqualificati come strumento formativo, mettendo fine all’attuale situazione in cui prevale l’utilizzo dei giovani come manodopera a costo zero. Devono essere chiarite le mansioni e gli obiettivi e si devono esercitare forme di controllo, monitoraggio, valutazione. L’apprendistato deve diventare una diffusa forma contrattuale di ingresso al lavoro che porta al contratto indeterminato e nella quale la formazione è assicurata e verificata, dando luogo a competenze certificate e spendibili. Non può invece essere uno strumento utilizzabile per l'adempimento dell'obbligo di istruzione.
8. Occorre affermare, anche attraverso una legge quadro nazionale, il diritto all’apprendimento permanente e promuovere la costruzione di sistemi territoriali integrati per l'apprendimento permanente. In particolare occorre assicurare la certificazione di tutte le competenze comunque acquisite dai lavoratori e dai cittadini.
NODI DA APPROFONDIRE
Quasi tutte le proposte e azioni sopra elencate rappresentano, alla luce della discussione del gruppo, anche nodi da approfondire in prossime possibili iniziative, nazionali e territoriali, nell'ambito per percorsi attivato dagli Stati Generali della Conoscenza.
giovedì 16 giugno 2011
Gregory A. Petsko - Lettera aperta alla SUNY, Albany
22 Novembre, 2010
La lettera che segue a George M. Philip, presidente dalla State University of New York (SUNY) di Albany, scaturita dalla proposta di chiusura dei dipartimenti di Francese, Italiano, Russo, Lettere Classiche ed Arti Teatrali, fu originariamente pubblicata sul blog Genome Biology ed è riprodotta col permesso dell’autore.
Caro Presidente Philip,
Probabilmente l’ultima cosa di cui sente il bisogno in questo momento è l’ennesima protesta, dall’esterno della sua Università, contro la sua decisione. Se lei volesse obiettare che il sottoscritto non può comprendere tutti i particolari della situazione non essendo mai appartenuto alla SUNY di Albany, non posso smentirla. Tuttavia, non me la sento di lasciar passare una cosa come questa e spero, una volta entrato in argomento, che lei comprenda perché.
Lo scorso 1° ottobre lei annunciò che i dipartimenti di Lingua Francese, Italiana, Russa, Lettere Classiche ed Arti Teatrali sarebbero stati chiusi. Fornì numerose motivazioni per la decisione, compreso il fatto che vi erano pochi iscritti per questi corsi di diploma. Naturalmente la sua decisione fu anche, forse principalmente, un taglio di costi, che in effetti, lei disse, avrebbe potuto essere evitato se fosse stata approvata la legge che consentiva alla sua istituzione di fissare proprie tasse di frequenza. In ultimo, lei affermò che le discipline umanistiche rappresentano, dal punto di vista finanziario, una perdita, al contrario delle discipline scientifiche che attirano finanziamenti sotto forma di fondi diretti e contratti.
Tuttavia la invito ad esaminare in dettaglio queste e le altre sue motivazioni, perché penso che, ad un vaglio attento, gli elementi su cui ci si basa presentino importanti risvolti ignorati dalle sue argomentazioni. Per prima, la questione delle iscrizioni. Sono certo che un numero relativamente limitato di studenti scelga quei corsi di studio di questi tempi, proprio come dice lei. Ma non ve ne sarebbero stati tanti nemmeno ai miei tempi se le Università non avessero richiesto agli studenti di seguire un insieme di corsi in specialità accademiche diverse – discipline umanistiche, scienze sociali, belle arti, scienze fisiche e naturali – e di raggiungere un minimo di padronanza in almeno una lingua straniera. Vede, la ragione per cui i corsi di discipline umanistiche hanno un basso numero di iscritti non è perché gli studenti di oggi pretendano corsi più importanti, ma perché amministratori come lei e facoltà senza spina dorsale hanno smesso di imporre requisiti formativi generali ed iniziato a permettere agli studenti di scegliersi il proprio percorso – la qual cosa che credo sia un totale sottrarsi agli obblighi di una facoltà universitaria come insieme di docenti e mentori. Lei potrebbe risolvere il problema delle iscrizioni dall’oggi al domani, istituendo un curriculum di base obbligatorio che includa un ampio spettro di corsi.
I giovani, in genere, non sono ancora così avveduti da amministrare la libertà di scelta del propria formazione senza adottare decisioni inadeguate. In effetti, senza una certa dose di saggezza, il compito diventa difficile per gran parte degli individui. Questo concetto è definito con chiarezza assoluta, io penso, nell’apologo del Grande Inquisitore di Dostoyevsky, riportato al capitolo quinto del suo grande romanzo I fratelli Karamazov. Nel racconto, Cristo ritorna sulla terra, a Siviglia, al tempo dell’Inquisizione spagnola. Compie una serie di miracoli, ma viene arrestato dai capi dell’Inquisizione e condannato al rogo. Il Grande Inquisitore va a visitarlo nella sua cella e per dirgli che ormai la Chiesa non ha più bisogno di lui. Gran parte del testo consiste nella spiegazione del perché da parte dell’Inquisitore. Questi dice che Gesù sconfisse le tre tentazioni di Satana nel deserto per scegliere la libertà, ma ritiene che Gesù abbia giudicato male la natura umana. L’Inquisitore sostiene che gran parte del genere umano non è capace di usare propriamente la libertà. Nel dare agli uomini la libertà di scegliere, Cristo ha condannato l’umanità ad una vita di sofferenza.
Quel singolo capitolo di un lunghissimo romanzo è una delle più grandi pagine della letteratura moderna. Lei vi troverebbe moltissimo su cui riflettere. Sono certo che i componenti della sua facoltà di Lingua Russa avrebbero grande piacere a parlare con lei di quel capitolo – se solo lei avesse ancora un dipartimento di Lingua Russa, che adesso, ovviamente, non ha più.
Vi è poi la questione dell’inerzia del potere legislativo che non le ha dato altra scelta. Sono certo che i problemi di budget con cui deve confrontarsi sono seri. Gli stessi che abbiamo all’Università di Brandeis, dove lavoro. Anche noi abbiamo affrontato difficili decisioni strategiche perché le nostre entrate non erano più sufficienti a coprire le spese. Ma abbiamo evitato la vostra draconiana – e autoritaria – soluzione, ed una commissione della facoltà, con suggerimenti da tutte le altre componenti accademiche, è riuscita a formulare una proposta per fare di più con minori risorse. Non dico che le specificità della nostra ricetta sarebbero state adatte anche alla sua istituzione, ma la procedura sicuramente sì. Lei ha convocato un’assemblea generale, ma solo per discutere il suo piano, non per consentire all’Università di costruire una sua proposta. E lei ha convocato quell’incontro venerdì pomeriggio 1° ottobre, quando pochi studenti e pochi docenti erano in sede per partecipare. A sua discolpa, lei ha invocato la tempistica ‘sfavorevole’, scusandosi per la ‘limitata disponibilità di appropriate strutture per grandi eventi’. Trovo tutto ciò sconcertante. Se il presidente dell’Università di Brandeis avesse bisogno di un’aula da un momento all’altro, certamente ne rimedierebbe una. Arguisco che lei, invece, non deve avere gran peso nella sua Università.
Mi pare che la maniera con cui ha trattato la tutta faccenda sia stata la via più sicura per inimicarsi chiunque nella sua comunità. Al suo posto, avrei fatto qualsiasi cosa per evitare ciò. Avrei fatto di tutto per non finire nella nona Bolgia (un fossato nella pietra) dell’ottavo Cerchio dell’Inferno, dove Dante Alighieri, il sommo poeta del Trecento italiano, colloca i seminatori di discordia. In quella fossa essi lottano per l’eternità contro un demone che orrendamente mozza loro le membra, proprio come in vita essi avevano seminato divisioni.
L’Inferno è il primo libro della Divina Commedia di Dante, uno dei massimi capolavori dell’immaginazione umana. C’è tanto da imparare in esso sulla debolezza e sulla follia umana. I docenti del suo dipartimento di Italiano sarebbero deliziati di introdurla ai numerosi prodigi letterari dell’opera – se solo lei avesse ancora un dipartimento di Lingua Italiana, che adesso, ovviamente, non ha più.
E lei veramente pensa che anche quei docenti e quegli amministratori che oggi possono approvare la sua posizione dura (in parte, ne sono certo, per il sollievo di non essere stati essi stessi gli artefici dei tagli) saranno in futuro ancora dala sua parte? Ricordo la favola di Esopo ‘I viandanti e l’orso’: due uomini camminavano insieme nel bosco, quand’ecco apparire innanzi ad essi un orso. Uno dei viandanti ebbe la fortuna di trovarsi davanti, afferrò il ramo di un albero, vi salì e restò nascosto tra le foglie. L’altro, essendo molto più indietro, si gettò al suolo come morto, col viso nella polvere. L’orso gli si avvicinò e col muso all’orecchio annusò, annusò a lungo. Ma alla fine, con un grugnito, si allontanò perché gli orsi non toccano la carne morta. Allora l’amico sull’albero discese verso il suo compagno e, ridendo, chiese “Cosa ti ha sussurrato l’orso?” “Mi ha detto – rispose l’altro – di non fidarmi degli amici che ti abbandonano nel pericolo.”
Ho studiato per la prima volta quella favola ed il suo importante insegnamento di vita in un corso introduttivo di cultura classica. Esopo ha scritto letteralmente centinaia di favole, gran parte delle quali sono gradevoli come quella ricordata – ed illuminanti. I suoi docenti di Lettere Classiche sarebbero contentissimi di raccontargliele, se solo lei avesse ancora un dipartimento di Lettere Classiche, che adesso, ovviamente, non ha più.
A proposito poi dell’argomento sulla scarsa remuneratività delle discipline classiche, beh, credo sia vero, ma credo che vi sia uno sbaglio nell’assumere che l’Università dovrebbe essere governata come un affare economico. Non dico che non necessiti di essere amministrata con prudenza, ma il concetto che ogni parte di essa debba essere autosufficiente è semplicemente in contrasto totale con ciò che deve essere l’Università. Sembra che lei dia molto più valore a programmi imprenditoriali e materie pratiche, che possano generare proprietà intellettuale, di quanto non dia a corsi di studio “antiquati”. Ma le Università non devono solo elaborare e capitalizzare nuova conoscenza; esse devono anche impedire che la conoscenza pregressa vada perduta, il che richiede un investimento finanziario.
Vi sono anche buone ragioni per tutto ciò: quanto ci appare arcaico oggi può risultare essenziale in futuro. Le darò un paio di esempi. Il primo è la disciplina della virologia che negli anni ’70 si stava estinguendo perché la gente era convinta che le malattie infettive non fossero più un problema serio nel mondo sviluppato, e che altre discipline come la biologia molecolare fossero più attraenti. Poi, agli inizi degli anni ’90, un piccolo problema chiamato AIDS divenne la preoccupazione numero uno per la salute pubblica mondiale. Il virus che causa l’AIDS fu isolato e caratterizzato per la prima volta al National Institutes of Health negli Stati Uniti e allo Institute Pasteur in Francia, perché queste erano state tra le poche istituzioni che ancora sviluppavano programmi di virologia.
Col mio secondo esempio, lei avrà probabilmente maggiore familiarità. Gli studi sul Medio-Oriente, compreso lo studio di lingue come l’arabo ed il persiano, erano poco diffusi, negli anni ’90, in gran parte dei campus universitari. Poi arrivò l’11 settembre 2001. Improvvisamente realizzammo che avevamo bisogno di molte più persone che comprendessero qualcosa di quella parte del mondo, specialmente per la cultura Musulmana. Le Università che avevano conservato dipartimenti di studi del Medio-Oriente, nonostante le iscrizioni in calo, divennero molto importanti, da un giorno all’altro. Quelle che li avevano chiusi …. beh, sono certo che adesso lei abbia compreso il messaggio.
So che uno dei suoi argomenti è che non tutte le sedi devono tentare di fare tutto. Lasciamo che altre istituzioni abbiano ottimi programmi di studio in Lettere Classiche o Arti Teatrali – lei dice – noi ci dedicheremo a preparare gli studenti per i lavori del mondo reale. Bene, credo di aver appena dimostrato che il mondo reale è alquanto mutevole rispetto alle necessità. Il miglior modo per essere preparati all’inevitabile shock da cambiamento è essere formati nella maniera più ampia possibile, perché la cultura stagnante di oggi può diventare l’argomento caldo di domani. E la ricerca interdisciplinare, che fa così tendenza ai giorni nostri, è possibile solo se gli individui non hanno una formazione troppo settoriale. Se nessuna di queste ragioni la convince, posso accettare che lei trasformi la sua istituzione in qualcosa di focalizzato sulla pratica, a patto però che lei smetta di chiamarla Università e che continui a qualificarsi come Presidente di un’Università. Vede, la parola “università” deriva la latino universitas che significa “totalità”. Non si può essere un’Università senza avere un valido programma di formazione in discipline umanistiche. Diversamente, dovrà chiamare la SUNY di Albany una scuola di commercio, oppure un collegio vocazionale, ma non certo Università. Non più.
Mi rifiuto totalmente di credere che lei non avesse alternative. E’ suo compito, come Presidente, trovare modi per risolvere problemi senza ricorrere – per usare una metafora – all’amputazione di arti sani. Voltaire diceva che nessun problema può sopportare l’attacco di un pensiero prolungato. Voltaire, il cui vero nome era François-Marie Arouet, poteva sfoggiare una quantità notevole di detti incisivi, arguti e brillanti (il mio preferito è “Dio è un commediante che recita davanti ad una platea che ha paura di ridere”). Molto di quello che scrisse le sarebbe estremamente utile, se solo lei avesse ancora un dipartimento di Lingua Francese, che adesso, ovviamente, non ha più.
Credo di non dovermi meravigliare se lei stenta a comprendere l’importanza del conservare programmi di formazione in materie senza attrattiva ed apparentemente “morte”. Dalla sua biografia traggo che lei non ha un Ph.D. o altro diploma superiore, e che non le è stato mai insegnato o non ha mai fatto ricerca all’Università. Forse la interesserà invece la mia formazione. Ho cominciato con un diploma di maturità classica. Sono adesso professore di chimica e biochimica. Di tutti i corsi che ho seguito al college ed al liceo, quelli da cui ho tratto il massimo del beneficio per la mia carriera scientifica sono stati i corsi in Lettere Classiche, Storia dell’Arte, Sociologia e Letteratura Inglese. Questi corsi non mi hanno solo dato la capacità di apprezzare la mia cultura, ma mi hanno insegnato a pensare, analizzare e scrivere chiaramente. Nessuno dei corsi scientifici che frequentato in seguito mi ha dato qualcosa del genere.
Una delle mie attività correnti è tenere una rubrica mensile di scienza e società. Sono circa 10 anni che vi scrivo e mi fa piacere dire che il pubblico sembra apprezzarla. Nel caso fossi riuscito a proporle riflessioni non superficiali, le assicuro che sono derivate dalla mia formazione umanistica e dal mio amore per le arti.
Uno degli argomenti di cui ho scritto è il modo con cui la genomica sta cambiando il mondo in cui viviamo. La nostra capacità di manipolare il genoma umano farà sorgere questioni piuttosto delicate per l’umanità nei prossimi anni, compresa la domanda di cosa significhi veramente essere un umano. Non è una domanda solo per la scienza; è una domanda cui si deve una risposta con contributi da ogni branca del sapere umano, comprese – specialmente – le discipline umanistiche e le arti. La scienza senza l’apporto della sensibilità e dello spirito umano è sterile, fredda ed egocentrica. E anche arida: alcune delle mie migliori idee scientifiche sono derivate da pensieri e letture su argomenti che, apparentemente, non hanno nulla a che vedere con la scienza. Se ho ragione rispetto al fatto che la definizione di umano sarà uno dei problemi cruciali del nostro tempo, allora le Università che sono più attrezzate per affrontare la questione, in tutti gli innumerevoli aspetti collegati, saranno le più importanti istituzioni per lo sviluppo e l’apprendimento di conoscenze avanzate in futuro. Lei si è appena assicurato che la sua Università non sarà tra quelle.
Alcuni dei suoi difensori hanno affermato che la sua mossa è stata solo un brillante stratagemma – un capolavoro di tattica politica teso a impressionare i legislatori per indurli a concedere alla SUNY di Albany risorse sufficienti per tenere aperti quei dipartimenti di cui annunciava la chiusura. Ciò sarebbe machiavellico – Machiavelli, appunto, un altro notevole scrittore italiano, ma lei non ha una facoltà di Italiano che l’informi al riguardo. Dubito, tuttavia, che lei sia così fine. Se lo fosse stato, avrebbe tenuto quell’assemblea generale quando e dove l’intero corpo accademico e tutta la stampa sarebbero potuti intervenire. Questo è il modo di forzare la mano ad un gruppo di politici.
No, credo che lei abbia solamente tentato di far quadrare il bilancio, a spese di quelli che lei ritiene dipartimenti deboli, obsoleti e senza potere. Penso che col tempo lei realizzerà di aver portato a termine un affare faustiano. Faust è il personaggio da cui prende il titolo un dramma di Johann Wolfgang von Goethe. Fu scritto attorno al 1800, ma in Germania attrae ancora, quando viene rappresentato, un gran numero di spettatori, più ad ogni altro dramma. Faust è la storia di uno studioso che stabilisce un patto col diavolo. Che gli promette qualunque cosa voglia, finché sarà in vita. In cambio vorrà …… sono certo che lei sappia come si risolve di solito questo tipo di patti. Se solo lei avesse ancora il dipartimento di Arti Teatrali, che adesso, ovviamente, non ha più, potrebbe chiedere di rappresentare il Faust, in modo da vedere come va a finire. Sarebbe davvero estremamente illuminante nella sua situazione. Vede, Goethe credeva che ad un uomo non servisse a niente avere il mondo intero in cambio della rinuncia alla propria anima. Il mondo intero, Presidente Philip, non semplicemente il budget rispettato! Sebbene – le do atto – lei non abbia venduto la sua anima. Solo quella della sua Università.
Irrispettosamente suo,
Gregory A Petsko Gregory A. Petsko è il Gyula and Katica Tauber Professor of Biochemistry and Chemistry e cattedratico di biochimica alla Brandeis University.
mercoledì 15 giugno 2011
Assemblea Generale di Ateneo
martedì 21 giugno alle ore 10.00, presso l’Aula Magna di piazzale Kolbe, è convocata l’Assemblea Generale di Ateneo per la presentazione degli stati di avanzamento dei lavori della Commissione Statuto.
In attesa di incontrarVi numerosi, Vi invio cordiali saluti.
IL RETTORE
Prof.ssa Cristiana Compagno
sabato 11 giugno 2011
Imprese comprano università?
[ 10 giugno 2011 ] Comunicazione | Economia ecologica
Nicola Bellini
Chi scrive è tra quanti credono che una buona dose di privatizzazione delle università pubbliche sia inevitabile e benefica. Ricerca e formazione avanzata hanno bisogno di risorse, ma anche degli stimoli che un rapporto con la gestione clientelare e bancarottiera delle università italiane pubbliche non lascia alcuna credibilità all'ipocrita purismo di chi vuole che lo Stato tuteli la libertà di ricerca (spesso un paravento all'autoreferenzialità), ma insieme copra anche modalità di gestione (a cominciare dai reclutamenti) che definire privatistici è dir poco.
Tuttavia, se forme di coinvolgimento dei privati appaiono utili sia nel dare risorse sia nel vigilarne l'utilizzo, tocca pure ai privati fare crescere la propria visione del ruolo dell'università. Piegare le agende di ricerca e formazione alle "esigenze delle imprese" significa spesso adottare visioni miopi, che cercano risposte a breve e fortemente funzionali ai bisogni del committente. Anche i privati mostrano allora la loro dose abbondante di ipocrisia.
L'investimento nelle università, lungi dall'essere espressione di un illuminato favore per la promozione della ricerca, rappresenta un'alternativa meno costosa (e magari fiscalmente incentivata) a quella di realizzare invece proprie corporate universities.
Anzi i "generosi contributi" sfruttano gli investimenti materiali ed immateriali (oltre che la reputazione e il brand) realizzati spesso nel corso di secoli.
Le imprese quindi "ci guadagnano", ma insieme rinunciano ad attingere ai contributi più innovativi che possono derivare solo da agende accademiche, certamente costruite in un dialogo anche con gli attori economici, ma non eterodirette.
Ne vale la pena?
venerdì 10 giugno 2011
Lettera aperta al Ministro: Retribuzione e riconoscimento dell’attività didattica dei ricercatori a tempo indeterminato
Onorevole Ministro,
la Rete 29 Aprile denuncia le numerose incongruenze derivate dall’applicazione dell’art.6, c.4, della legge 240/2010, che prevede l’adozione di regolamenti di ateneo per stabilire le modalità e la retribuzione della didattica svolta dai ricercatori. Le scelte locali su questi temi, inevitabilmente diverse da ateneo a ateneo, stanno infatti determinando una palese discriminazione tra dipendenti pubblici che svolgono, in modo continuativo e strutturato, la medesima attività lavorativa.
La legge 240/2010 prevede che la retribuzione sia determinata «nei limiti delle disponibilità di bilancio» di ciascun ateneo, ovvero senza ulteriori oneri per lo Stato, ma non stabilisce un congruo importo minimo, come invece è fissato, tramite decreto ministeriale, per gli assegni di ricerca (art. 22 c. 7) e i contratti d’insegnamento (art. 23 c. 2), generando di fatto differenti trattamenti retributivi fra i vari atenei.
L’assenza di un parametro di riferimento sta portando a una serie di criticità tra le quali:
1. l’inaccettabile sperequazione tra i ricercatori che svolgono analoghe attività di docenza curriculare in base alle risorse dell’ateneo di appartenenza, senza alcuna corrispondenza con la qualità e quantità del lavoro svolto. Alcuni atenei tendono a negare (contra legem) il diritto alla retribuzione, adducendo difficoltà di bilancio dovute alla riduzione del fondo di finanziamento ordinario legata alle ultime manovre finanziarie, mentre altri indicano importi puramente simbolici. Altre sedi decidono l’attribuzione di insegnamenti ad assegnisti e dottorandi a titolo gratuito, mentre altre ancora non emanano gli appositi regolamenti. Altre ancora hanno già assunto posizioni analoghe a quelle qui descritte e non ritengono di dover emanare nuovi regolamenti
2. L’adozione da parte di alcuni Atenei di regole o prassi tese a cancellare la necessità dell’accordo del ricercatore (prevista dell'art. 12, c. 3, L. 341/90) per l’assunzione di incarichi di insegnamento. Si configurano infatti sempre più spesso forzature delle norme per evitare che l’attività di insegnamento dei ricercatori appaia formalmente come tale: l’inclusione delle ore di didattica curricolare ex officiomobbing, suggerendo talora implicitamente e contra legem che senza attività didattica curriculare non ci saranno avanzamenti di carriera.
3. la penalizzazione dell’offerta formativa degli atenei per la trasformazione di insegnamenti cui sono attribuiti crediti formativi in didattica integrativa e non curriculare, a scapito degli studenti già seriamente penalizzati dal combinato disposto del DM 17/2010 e delle restrizioni di bilancio ex l. 133/2008.
4. una subdola e inammissibile contrattualizzazione de facto dei ricercatori a tempo indeterminato, nell’ambito delle loro attività didattiche, in contraddizione con il loro status giuridico e conseguente alla parcellizzazione delle sedi e delle prestazioni.
Rete 29 Aprile ha segnalato da tempo le contraddizioni della legislazione universitaria, da cui questi comportamenti traggono origine, rimaste peraltro irrisolte con l’applicazione della legge 240/2010.
In particolare, il Ministero da un lato, a seguito del DM 386/2007, ha equiparato i ricercatori ai professori nel computo dei requisiti minimi per l’attivazione dei corsi di laurea, mettendo le basi per rendere nei fatti quasi un obbligo per i ricercatori il tenere incarichi d’insegnamento, incompatibilmente con il loro stato giuridico che richiede invece un esplicito consenso per l’assunzione di incarichi di didattica curriculare.
Dall’altro ha comunque rigettato l’idea del ruolo unico della docenza, che avrebbe, tra le altre cose, riconosciuto ai ricercatori il loro ruolo fondamentale per la sostenibilità della offerta didattica degli atenei.
Inoltre, il riconoscimento della retribuzione aggiuntiva nei limiti delle attuali disponibilità di bilancio è vanificato dal pesante ridimensionamento del fondo di finanziamento ordinario.
Nell’attuale fase di stesura, discussione e approvazione dei regolamenti per evitare un consolidarsi delle distorsioni e delle pratiche sbagliate, R29A chiede che si introduca urgentemente il principio fondamentale di un’equa retribuzione, a partire dalla prima ora di didattica curriculare per ricercatori di ruolo e i docenti precari, secondo criteri minimi stabiliti a livello nazionale, mettendo nel contempo gli atenei nelle condizioni di sostenere la spesa.
La definizione di un’equa retribuzione potrebbe essere fatta basandosi sulla differenza retributiva tra professori associati e ricercatori.
Questo passaggio fondamentale consentirebbe, infatti, di arginare la corsa degli atenei al tamponamento delle carenze di organico per la copertura delle legittime esigenze didattiche attraverso la risorsa a basso costo del precariato accademico e del personale in pensione, soluzione che nel medio termine non potrà che avere effetti devastanti sulla qualità dell’offerta formativa dell’Università statale.
La definizione di un’equa retribuzione potrebbe essere fatta basandosi sulla differenza retributiva tra professori associati e ricercatori.
Questo passaggio fondamentale consentirebbe, infatti, di arginare la corsa degli atenei al tamponamento delle carenze di organico per la copertura delle legittime esigenze didattiche attraverso la risorsa a basso costo del precariato accademico e del personale in pensione, soluzione che nel medio termine non potrà che avere effetti devastanti sulla qualità dell’offerta formativa dell’Università statale.
La Rete 29 Aprile, nel fare presente che il contributo dei ricercatori all’Università italiana in termini di didattica è stimabile in almeno un terzo del totale dell’offerta formativa, auspica che codesto Ministero fornisca dati precisi sui carichi di insegnamento da loro svolti, consentendo così una quantificazione corretta dell’onere economico dell’attuazione della L. 240/2010.
Infine, richiamando la differenza tra didattica integrativa e didattica curriculare (si rinvia alla mozione del CUN del 15 settembre 2010), R29A denuncia l’illegittimità di quei regolamenti che prevedono l’affidamento a ricercatori di incarichi di insegnamento, senza bandi o richieste ufficiali, assimilandoli a didattica integrativa.
Peraltro, l'art. 6, c. 4, L. 240/2010 ribadisce quanto stabilito dall’art. 12, c. 3, L. 341/90, poi ripreso senza modifiche dall'art. 1, c.11, L. 230/2005, sulla necessità del consenso del ricercatore ai fini dell'affidamento di didattica curriculare e dei compiti di tutorato e di didattica integrativa: appare quindi illegittima la previsione a livello di regolamenti di ateneo dell’affidamento forzoso di tali compiti.
Rete29Aprile si rende disponibile a un confronto con codesto Ministero per l’individuazione degli importi minimi per la retribuzione della didattica e per una compiuta definizione dei relativi effetti giuridici, nel presupposto che dall’attività didattica curriculare discendano obblighi e diritti di pari dignità con i docenti di prima e seconda fascia.
Rete 29 Aprile continuerà a monitorare l’applicazione normativa nei singoli atenei, sia verificando i regolamenti già approvati e quelli in via di approvazione, sia sostenendo e favorendo l’approvazione di regolamenti compatibili con le suddette posizioni.
In mancanza di un sollecito intervento del Ministero, e nel perdurare dell’assenza di una effettiva disponibilità al dialogo, R29A si riserva di utilizzare ogni mezzo consentito dalla legge per evidenziare pubblicamente le fortissime contraddizioni che la riforma, anziché risolvere, aggrava.
RingraziandoLa per l’attenzione e in attesa di un Suo riscontro, Le inviamo i nostri più distinti saluti.
6 giugno 2011
http://www.rete29aprile.it/comunicati-stampa/
CONFRONTO HARVARD – ITALIA SU INVESTIMENTO IN RICERCA
"Per avere una tangibile ed efficace pietra di paragone della differenza in investimento per ricerca tra l’Italia e gli Stati Uniti (portati sempre ad esempio positivo in questo campo) basta fare un semplice confronto.
L’università di Harvard, che in tutti i ranking occupa quasi sempre il primo posto al mondo, ha ricevuto per il 2009 in finanziamenti per ricerca (tra fondi federali e non federali, costi diretti e indiretti) la somma circa 705 milioni di dollari; il MIUR ha stanziato per finanziare l’intera ricerca universitaria italiana per il 2009 (in tutti i campi disciplinari) la somma di 104.740.000 euro (fondi Prin), che equivalgono al cambio odierno a circa $136.754.000: il Miur per finanziare la ricerca universitaria stanzia mediamente il 19,3% di quello che riceve la sola Harvard.
Se invece consideriamo non solo la spesa del MIUR, ma l’intera spesa per ricerca scientifica del sistema universitario italiano (qualunque ne sia la fonte di finanziamento), apprendiamo che nel 2006 questa ammontava a 5.327,4 milioni di dollari (MIUR, Le risorse dell’università, p. 17); in considerazione del fatto che di certo essa non è cresciuta in maniera consistente ad oggi (così come è dimostrato dai suoi valori percentuali sul complesso del Pil e in relazione ai tagli avvenuti negli ultimi anni), possiamo vedere come la spesa per tutta la ricerca scientifica universitaria italiana è solo circa 8 volte superiore a quella della sola Harvard.
Con questi numeri la domanda che di solito si fa (perché i ricercatori italiani producono così poco rispetto ai colleghi americani?) andrebbe capovolta: come mai i ricercatori americani distanziano di così poco quelli italiani, in considerazione dei mezzi strumentali, delle risorse economiche e delle strutture di cui beneficiano?"
Per proseguire nella lettura dell'articolo di F. Coniglione, italiacheaffonda clicca qui.
L’università di Harvard, che in tutti i ranking occupa quasi sempre il primo posto al mondo, ha ricevuto per il 2009 in finanziamenti per ricerca (tra fondi federali e non federali, costi diretti e indiretti) la somma circa 705 milioni di dollari; il MIUR ha stanziato per finanziare l’intera ricerca universitaria italiana per il 2009 (in tutti i campi disciplinari) la somma di 104.740.000 euro (fondi Prin), che equivalgono al cambio odierno a circa $136.754.000: il Miur per finanziare la ricerca universitaria stanzia mediamente il 19,3% di quello che riceve la sola Harvard.
Se invece consideriamo non solo la spesa del MIUR, ma l’intera spesa per ricerca scientifica del sistema universitario italiano (qualunque ne sia la fonte di finanziamento), apprendiamo che nel 2006 questa ammontava a 5.327,4 milioni di dollari (MIUR, Le risorse dell’università, p. 17); in considerazione del fatto che di certo essa non è cresciuta in maniera consistente ad oggi (così come è dimostrato dai suoi valori percentuali sul complesso del Pil e in relazione ai tagli avvenuti negli ultimi anni), possiamo vedere come la spesa per tutta la ricerca scientifica universitaria italiana è solo circa 8 volte superiore a quella della sola Harvard.
Con questi numeri la domanda che di solito si fa (perché i ricercatori italiani producono così poco rispetto ai colleghi americani?) andrebbe capovolta: come mai i ricercatori americani distanziano di così poco quelli italiani, in considerazione dei mezzi strumentali, delle risorse economiche e delle strutture di cui beneficiano?"
Per proseguire nella lettura dell'articolo di F. Coniglione, italiacheaffonda clicca qui.
mercoledì 8 giugno 2011
Comunicato unitario sul Valore legale del titolo di studio letto e consegnato alla Commissione Istruzione del Senato
ADU, ANDU, CISAL-Docenti universitari, CISL-Università, CNRU, CNU, CoNPAss, FLC-CGIL, LINK, RETE29Aprile, SNALS-Università, SUN,UDU, UGL-Università, UILPA-UR, USB-Pubblico impiego
· Come associazioni e organizzazioni della docenza e degli studenti, crediamo che il valore legale del titolo di studio rappresenti un elemento di certezza indispensabile nel nostro Paese e una funzione di garanzia dello Stato sull’equità e sulla correttezza dei rapporti tra i cittadini, che individua con certezza i contenuti di conoscenza da acquisire nell’Università.
· Riteniamo, inoltre, che l’audizione di oggi abbia ad oggetto un argomento che non pare coerente neanche con gli stessi contenuti della legge 240/10. Infatti, pur non condividendo questa Legge, evidenziamo come già vi si preveda l’attribuzione all’ANVUR di competenze funzionali alla verifica della qualità dei corsi di studio.
· Consideriamo il mantenimento del valore legale del titolo di studio un dato centrale del sistema universitario italiano e paventiamo che la sua abolizione possa incrementare le diseguaglianze sociali ed economiche.
· Ricordiamo infine come la raccomandazione del Consiglio dei Ministri europeo del 16 maggio 2007 esalti la responsabilità pubblica nell’istruzione superiore; in particolare dette responsabilità non debbano essere orientate esclusivamente al mercato e non possano essere demandate in nessun modo ai privati nelle loro funzioni essenziali, soprattutto riguardo alle attività di valutazione.
Roma, 7 giugno 2011
Giovedì 16 giugno 2011 alle ore 10.30 si terrà a Roma una riunione delle Organizzazioni e Associazioni dell’Università
ANDU - Valore legale: audizione al Senato
mercoledì 8 giugno 2011
By ANDU | No Comments »
Audizione presso la Commissione Istruzione del Senato
- Testo del Documento di ADU, ANDU, CISAL-Docenti universitari, CISL-Università, CNRU, CNU, CoNPAss, FLC-CGIL, LINK, RETE29Aprile, SNALS-Università, SUN,UDU, UGL-Università, UILPA-UR e USB-Pubblico impiego, letto e consegnato.
- Resoconto sommario ufficiale dell’Audizione al Senato (poi cliccare su “procedure informative”).
- Audio integrale dell’Audizione.
- Articolo su Corriere.Univ.it.
- v. anche Messaggio ANDU del 3 giugno 2011 “Abolire il valore dei titoli per abolire tutto”.
Le Organizzazioni dell’Università si riuniranno a Roma il 16 giugno 2011.
Tasse universitarie: fatti, miti e ideologia
La discussione sull’ammontare delle tasse universitarie tocca vari punti politici e strategici di primo piano, dal ruolo dello Stato e dell’intervento pubblico, alla missione stessa dell’università; per questo è necessario che ci sia un dibattito approfondito su questo argomento. Andrea Ichino ha recentemente riportato i punti salienti di un’interrogazione parlamentare (primo firmatario Pietro Ichino - Partito Democratico) in cui si propone di aumentare le tasse universitarie ed introdurre un sistema di prestiti sul modello recentemente adottato in Inghilterra. Secondo i proponenti, le ragioni a favore dell’aumento delle tasse universitarie sono: (i) maggiori tasse implicano maggiore qualità e (ii) maggiori tasse con prestiti d’onore implicano una maggiore giustizia sociale. Prima entrare nell’analisi del merito della proposta è necessario fare chiarezza su alcune delle assunzioni su cui si basa; nelle parole di Ichino: “dare ai poveri un'università gratis ma di pessima qualità è una truffa”.
(1) L’università italiana non è gratuita. Nel rapporto dell’OCSE “Education at a Glance 2010” a pagina 244 troviamo un confronto tra le tasse universitarie di diversi paesi. In particolare si nota che “Tra i paesi dell’Europa a 19 per i quali i dati sono disponibili, solo l’Italia, l’Olanda, il Portogallo e l’Inghilterra hanno tasse annuali al di sopra di 1100 dollari per studente a tempo pieno”. Come illustrato in Figura 1, tra le 14 nazioni considerate nel biennio 2006/07, l'Italia si colloca sesta come tasse universitarie, ma ultima come percentuale di studenti beneficiari di contributi per diritto allo studio. Si noti inoltre che il fondo integrativo statale per le borse di studio è recentemente passato da 246 a 76 milioni (-69%, un taglio enorme) equivalente al taglio di 45.000 borse su 150.000 erogate (che già coprivano solo l'82.5% degli aventi diritto). Dunque mentre le rette in Italia sono paragonabili, se non addirittura più alte, a quelle d’altri paesi europei, gli studenti meno abbienti non ricevono un aiuto rilevante a causa delle carenze strutturali di una politica per il diritto allo studio che dovrebbe essere lo strumento per rendere il sistema socialmente più equo, come avviene in altri paesi europei.
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Memoria del Conpass per l'indagine conoscitiva del Senato della Repubblica sul valore legale della laurea
Introduzione
Si ringrazia, innanzitutto la Commissione e per essa il suo Presidente per l'opportunità offerta e coglie con favore l'iniziativa di sentire il parere delle organizzazioni della docenza universitaria, auspicando un loro più diretto coinvolgimento prima di effettuare scelte fondamentali sui temi dell'università.
Siamo un nuovo soggetto collettivo che nasce con lo scopo duplice di proporre un modello nuovo di università, che vada al di là delle istanze proprie della categoria (pur essendo un'aggregazione di categoria, quella dei professori associati, la più maltrattata dalle ultime riforme), e di dar voce a quella parte del mondo accademico che si impegna giornalmente per mantenere standard di livello internazionale pur in presenza di condizioni al contorno demotivanti e che ritiene importante riaprire quei canali di comunicazione con la società ed soprattutto col mondo politico che non sempre negli ultimi tempi ha dato dimostrazione di saper ascoltare, cogliere e valorizzare tutte le voci, la ricchezza culturale e la pluralità di posizioni del mondo accademico, nel compiere scelte politiche relative all’ Università.
Premessa
Detto ciò diamo senz'altro indugio risposta ai quesiti formulati dalla Commissione. Ci limiteremo a pochi lampi sugli otto quesiti raggruppati in cinque punti, riservandoci di fare pervenire alla commissione, in tempi ragionevolmente brevi, una nostra più articolata memoria.
Saltiamo anche le premesse generali perché il resoconto della audizioni e la documentazione informativa messe a disposizione dalla Commissione consente di dare per note le fonti che governano il “valore” del titolo di studio; si danno altresì per noti gli scritti principali (ex multis Cassese, Rubele) che hanno discusso il tema.
1. A parere della Vostra Organizzazione, nei concorsi pubblici, il riconoscimento del valore legale della laurea risulta effettivamente lo strumento più efficace per selezionare i soggetti più preparati?
La laurea – e più in generale il titolo di studio – non ha la funzione di “selezionare i soggetti più preparati” per l'accesso alla p.a., perché questo scopo è assolto dal pubblico concorso. Da questo punto di vista, la laurea rappresenta una certificazione di un percorso di studi compiuto con profitto, più o meno variabile, e – soprattutto – su obiettivi formativi omogenei e contenuti equivalenti , entro i vincoli stabiliti dalla legge.
La stessa considerazione può farsi, più in generale, per l'accesso alle professioni protette, al pubblico impiego non privatizzato: per es. in magistratura e nella carriera diplomatica, e, seppure entro certi limiti, per l'accesso alle qualifiche dirigenziali del lavoro pubblico contrattualizzato, poiché come è noto i cc.cc.nn.ll. consentono talvolta di prescindere dal titolo di studio.
Va notato che l’attuale sistema permette di coniugare una notevole flessibilità ed autonomia nella scelta dei contenuti specifici, in grado quindi di venire incontro ad esigenze specifiche di settori disciplinari o del territorio, con una certificazione di sostanziale equivalenza della formazione. L’ esistenza di tale certificazione, costituendo condizione necessaria per la partecipazione a concorsi pubblici, ma non sufficiente per la selezione dei soggetti più preparati, costituisce una garanzia ed anche uno strumento efficiente di preselezione senza nulla togliere alla fase di selezione vera e propria.
La formulazione del quesito contiene in sé una risposta che deve per forza essere negativa, ma nel senso di non essere per nulla favorevoli alla tesi abolizionista.
Più in generale, ha senso mantenere il valore legale della laurea nel mercato del lavoro?
Nel mercato del lavoro la laurea non ha mai avuto valore legale, sia per la nota irrilevanza della qualifica soggettiva, come tra i giuslavoristi si usa chiamare i titoli professionali in generale, (salvo i casi previsti dalla legge a presidio di interessi pubblici: si pensi alle qualifiche di direttore tecnico di imprese provate), sia per l'impossibilità di imporre a un privato cittadino limitazioni sì forti della sua autonomia contrattuale, salvo il caso – ovviamente – della discriminazione turpe.
Cosicché il problema rimane confinato l'accesso all'esame di abilitazione per le professioni protette e l'accesso alla p.a.
Quali altri valori legali della laurea la Vostra Organizzazione riscontra nel nostro ordinamento?
Di valore legale si può parlare in ambito scolastico ed extrascolastico. Se ne individuano due aspetti, a nostro avviso da mantenere. Il primo è proprio dell'ambito scolastico ed è quello che il regolamento studenti del 1933 definisce “valore accademico”. Consiste nella certificazione necessaria per passare da un grado all'altro e da un ordine all'altro. Si tratta di una sistema che – pur attenuato nell'ambito dell'autonomia universitaria – consente ed agevola la mobilità tra sedi e corsi. Esso è presente in tutti gli ordinamenti, anche in quelli nei quali si assume -erroneamente – l'assenza di valore legale. Esso è certamente da mantenere se non si vuole generare una pericolosa autarchia di ogni istituzione di istruzione e innescare una sequela di verifiche individuali delle conoscenze di ogni studente che intenda modificare o proseguire altrove il proprio percorso di studi. Va anche ricordato che questo aspetto permette un’ enorme semplificazione nel riconoscimento dei percorsi formativi in ambito europeo e l’ abolizione del valore legale della laurea comporterebbe problemi non da poco per mantenere la compatibilità con lo Spazio Europeo dell’ Istruzione Superiore.
Il secondo aspetto appartiene all'ambito extrascolastico e come detto riguarda essenzialmente l'accesso alle professioni e alla p.a. Del suo operare si è detto, qui si aggiunge che esso è fondamentale strumento di eguaglianza, sebbene allo stato ancora prevalentemente formale, e come tale deve a nostro avviso essere mantenuto. Su come anzi possa essere migliorato diremo più avanti.
2. A parere della Vostra Organizzazione, quali implicazioni potrebbero esserci nel mondo del
lavoro con l'abolizione del valore legale della laurea?
Si aggraverebbe la segmentazione del mercato del lavoro tra aree economicamente svantaggiate aree più ricche del paese; creando barriere all'ingresso del mercato del lavoro delle professioni e di quello pubblico, che in Italia ha dimensioni ragguardevoli.
Esso sarebbe lungi dall'innescare una concorrenza tra atenei, effetto impossibile da realizzare con tale strumento in un sistema di istruzione e formazione come quello italiano che si presenta pieno di distorsioni e di disuguaglianze.
Al riguardo, si rileva che già da ora, la congettura della concorrenza sembra supporre che le università in competizione stiano tutte su un medesimo mercato.
Il giovane si diploma e decide che l'università alpha è pessima e non offre sbocchi, dunque, si iscrive all'università beta, che invece è accreditata di chiara fama, con ciò innescando -si dice - una corsa al miglioramento dell'università alpha.
La congettura oblitera gli immani ostacoli alla mobilità studentesca esistenti nel nostro Paese.
Il problema di uno studente di Reggio Calabria che volesse iscriversi, poniamo il caso, a Milano a Roma o a Torino, non è dato tanto dalle tasse universitarie (che in presenza di qualità in astratto giustificherebbero, si dice, ma non si condivide, la spesa), ma dalla necessità di dovere gravare sulla sua famiglia per le spese di mantenimento (cioè degli studi nella loro interezza) in una città lontana; città in cui il costo degli alloggi e in generale dellavita è elevatissimo. È strano che, invece di guardare ai c.d. paesi anglosassoni affetto diversi dal nostro, non si guardi alla Germania in cui, non solo il titolo ha valore legale, ma i costi di mantenimento, addirittura nella sua capitale, sono inferiori a quelli di una città italiana di provincia, oltre all’esistenza di un sistema di sussidi da fare impallidire ogni confronto con il nostro.
Ai guasti già indicati, abolendo il valore legale del titolo di studio, si rischia di aggiungere quello della discriminazione territoriale, perché una Regione, una Provincia, un Comune potrebbero ben accettare solo laureati provenienti dalla stessa Regione, Provincia, Comune.
Siamo ben consapevoli che vi è una parte politica che guarda con favore proprio a questo aspetto. Ma questa è pura miopia, nel caso del sistema universitario. A fronte di politiche di altri paesi che incentivano l’ immigrazione intellettuale, qualsiasi possibile ostacolo alla mobilità interna dei laureati suona come un atto di protezionismo fuori tempo massimo in grado di favorire solo il peggiore provincialismo. Traiamo, proprio dalle argomentazioni per dir così a favore della “territorializzazione” degli studi e dell'occupazione, la migliore conferma della necessità di mantenere il valore legale e della dannosità e inutilità della sua abolizione.
Inutile abolizione, perché se le lauree, uguali nella forma, fossero realmente così diverse nella sostanza, non ci sarebbe bisogno di abolirne il valore legale unificante per ottenere l'effetto selettivo.
Si osservi che se il male venisse dal valore legale non si spiegherebbe come i laureati italiani, specialmente quelli meridionali, cioè delle università che si additano a più scarso livello, trovano occupazione all'estero (mentre noi non importiamo laureati); oppure trovano occupazione in territori del Paese in cui hanno sede le università più blasonate, riuscendo dunque a fare concorrenza propri a quei laureati dei quali si presume la coincidenza della forma con la sostanza. Ciò accade sia nell'occupazione privata, sia nella p.a., sia nelle professioni; e allo stesso tempo i laureati degli atenei di c.d. eccellenza non si trasferiscono nella aree delle università meno qualificanti, dove invece avrebbero – in teoria – buon gioco per minore concorrenza.
In definitiva, l'abolizione in discussione servirebbe solo a acuire le discriminazioni territoriali già presenti. E da lì passare alle discriminazioni per formazione politica, religiosa et coetera il passo è breve.
Del resto, se pure si dimostrasse, ma finora nessuno c'è riuscito, che sia il “valore legale della certificazione” un ostacolo al funzionamento del mercato, il discorso dovrebbe essere spostato alle “certificazioni” che effettivamente danno accesso al mercato, e cioè alle abilitazioni professionali, non alle lauree che anzi pre-selezionano i soggetti che partecipano all'abilitazione. E talune abilitazioni, così come concepite, sì che sono di ostacolo allacompetizione. È ben vero che la Costituzione le prevede, ma la costituzione non impedisce alla legge di attribuire valore abilitante ai percorsi di studio che abbiano certe caratteristiche.
Il che sarebbe a dire che “il valore legale del titolo di studio”, per garantire concorrenza leale, deve essere rafforzato e non abolito.
Del resto, in qualsiasi sistema (USA inclusi) una qualche misura di garanzia a priori sul soddisfacimento di certi criteri formativi è prevista. Che si chiami laurearsi presso università accreditate o valore legale non fa differenza dal punto di vista del mercato del lavoro. La fa dal punto di vista della possibilità di creare un sottobosco incontrollato di entità che rilasciano titoli "spazzatura". Fenomeno diffusissimo negli USA e quasi inesistente da noi a livello universitario.
3. Qual è la posizione della Vostra Organizzazione rispetto ad una possibile abolizione del valore legale della laurea e all'introduzione nel nostro sistema di organismi di "accreditamento" dei corsi di studio universitari che, come quelli anglosassoni, sarebbero costituiti da esperti del settore, capaci di valutarne la qualità e l'efficienza?
Preliminarmente si osserva che parlare di "sistema anglosassone" tout court è improprio: il sistema inglese e quello americano non sono equivalenti (come risulta per altro evidente già alla lettura della documentazione informativa messa a disposizione sul sito del Senato).
L'accreditamento nel sistema italiano esiste già: lo svolge il MIUR. Se si pensa che funzioni male si cerchino al MIUR le responsabilità e gli errori.
La rispondenza della preparazione agli standard del mercato può anche tener conto di un punto di vista "esterno" all' accademia. Ma questo può essere compito di un' attenta ridefinizione delle politiche di valutazione dell' ANVUR. Pensare che la soluzione possa essere nel "libero mercato" è velleitario. Anche dove sembra che sia così (USA) in realtà ci si basa su una prassi ed una tradizione di lunga data che non possono essere trapiantate, da sé sole, nel sistema italiano semplicemente abolendo il valore legale della laurea.
Dunque, in funzione della risposta al quesito 2 è evidente che la nostra organizzazione non reputa incompatibili tra loro il mantenimento del valore legale del titolo di studio, che anzi con forza auspica, e un sistema di “verifica e controllo dei requisiti di qualità” quali presupposti per poter rilasciare il titolo. Detto in altri termini si può prevedere di attribuire valore legale non in modo automatico, una volta per sempre, ma solo ai titoli di studio rilasciati da università che abbiamo e mantengano requisiti strutturali di qualità, ma il titolo deve avere lo stesso valore da Brunico e Capo Passero senza graduazioni.
Ciò su cui la nostra organizzazione è in forte dissenso è l’ idea di “accreditamento affidato a esperti del settore, capaci di valutarne la qualità e l'efficienza”.
Si osserva quanto sia singolare ricorrere a "esperti del settore" cioè “non studiosi”, per valutare una comunità di studiosi, che di mestiere fanno propri i valutatori.
Noi possiamo essere d'accordo con un sistema di valutazione centrale, non con un accreditamento,
(piace ricordare che le cliniche degli orrori sono state “accreditate”) purché a valutare siano studiosi indipendenti (peer review) – a garanzia delle prerogative di cui agli art. 9 e 33 della Costituzione - e non “manager” di questa o quell'impresa, di massima interessata a un indirizzo piuttosto che a un altro o a dipendenti di improvvisate “società di consulenza”.
Non si oppone alcuna obiezione a che si valuti oggettivamente il possesso di requisiti di qualità, definiti in modo condiviso, stabile e resi noti con considerevole anticipo rispetto alla valutazione.
Ove, invece si ritenesse di istituire un sistema di accreditamento di "esperti del settore" diversi dai docenti degli atenei significherebbe espropriare in modo ingiustificato e offensivo un'intera categoria della sua dignità professionale.
Secondo la Vostra Organizzazione, tale sistema potrebbe garantire una preparazione più rispondente agli standard del mercato?
Spostare l'attenzione formativo-professionalizzante su un sistema di c.d. master, che alla fine del loro percorso immettano sul mercato del lavoro, delle professioni, dell'impiego presso la p.a. (non si può escludere pure verso l'impiego privato, ma è irrilevante prevederlo), inglobando al loro interno il tirocinio o la pratica professionale. Meccanismi di incentivazione per una migliore comunicazione tra mondo produttivo e università potrebbero aiutare. Va però notato che l’analisi della maggiore o minore rispondenza della preparazione dei laureati agli standard del mercato andrebbe fatta in modo indipendente dalle posizioni delle associazioni produttive e in particolare da quelle confindustriali. Chi nel mondo accademico si confronta col mondo delle aziende, magari con un occhio anche al mercato europeo del lavoro, non ha la stessa percezione che traspare da certe posizioni pubbliche di Confindustria.
4. Che ruolo vorrebbero e potrebbero assumere i sindacati in un sistema di accreditamento come quello sopra descritto?
Non dovrebbero avere alcuna parte nella gestione del sistema. Anzi dovrebbero essere stabilite ferree incompatibilità tra gestori e sindacati, partiti politici, enti confessionali etc.. Il riferimento ai sindacati, di tutta evidenza, si rifà al sistema inglese e soprattutto americano; ma in quei sistemi giocano un forte ruolo le organizzazioni professionali che però non sono sovrapponibili come struttura, tradizione e missione ai nostri sindacati. Il loro controllo si svolge sull'accesso alla professione e come tale – ove lo si volesse importare nel nostro – dovrebbe essere riferito non al valore del titolo di studio, ma a quello dell'abilitazione professionale. Nel nostro sistema, invece, si reputano compatibili esclusivamente funzioni di controllo a livello di sistema.
Nei Master abilitanti prima ipotizzati, le organizzazioni professionali, ovvero la stessa p.a. possono avere un ruolo diretto. In tale ipotesi di potrebbe pensare a un accreditamento nazionale o locale.
5. A parere della Vostra Organizzazione, ci sono altri strumenti, oltre all'abolizione del valore legale della laurea, che consentirebbero di rendere l'offerta formativa universitaria più aderente alle esigenze di mercato?
Il quesito, nel suo complesso, considera l'istruzione universitaria alla stessa stregua di un corso di formazione professionale, che se non insegna da sé un mestiere è inutile che ci sia; si basa, inoltre, su presupposti impliciti, che però non necessariamente devono essere condivisi.
Essi sono: -che l'offerta formativa universitaria non è aderente alle esigenze di mercato; -che debba esserlo in massima misura; -che l'abolizione del valore legale della laurea sarebbe di per sé utile allo scopo; -che le esigenze del mercato siano conosciute, conoscibili, stabili e, in qualche misura, prevalenti su altri orientamenti strategici. La funzione dell'università è ben diversa ed è quella di riprodurre studiosi e formare classe dirigente, con funzione propulsiva della Società e non adattativa a questa. Massimamente in un sistema di Istruzione pubblica statale universale, quale si ricava dagli art 9 e 33 Cost., gli obiettivi dell'università incarnano quelli dello Stato, cioè, tanto per citare un autore indubbiamente liberista, Adam Smith, quello di orientare il mercato stimolando gli agenti a modernizzarsi.
A nostro avviso compito dell’Università non dovrebbe essere quello di adeguarsi al mercato del lavoro, come decenni di riformismo fallimentare, di destra e di sinistra, hanno vanamente preteso che facesse, ma di fornire nuove idée e persone in grado di averne. Non di fornire conoscenze precarie a un ciclo produttivo dominato dalla contingenza degli interessi aziendali e dalla programmazione a tre mesi. Se la ricerca e la didattica non si spingessero oltre l’utilità dell’oggi, non rifiutassero il “merito” dell’adattamento, non aprissero a nuovi percorsi “possibili” che solo in parte saranno destinati a realizzarsi, allora la nostra Università non svolgerebbe il ruolo che in tutto il mondo industrializzato è svolto da tale Istituzione.
Essendo evidente che per quanto detto non condividiamo né la filosofia del quesito né i presupposti impliciti di esso che e anzi sono considerati dei falsi presupposti, la nostra risposta al quesito deve intendersi data come se il quesito chiedesse solo: Che cosa consentirebbe di rendere una parte dell'offerta formativa universitaria più aderente alla domanda del mercato?
Al riguardo si ritiene sufficiente far funzionare la valutazione (cfr. ANVUR) stabilendo in sede di valutazione gli opportuni canali di feedback con i vari stakeholders esterni. Per l'individuazione dei quali va però tenuto presente che, oltre al mercato interno, esiste anche il mercato del lavoro all'estero che spesso ha una maggiore dinamica e lungimiranza di quello interno, tanto è vero che assume i nostri laureati, così come sono oggi, da dovunque provengano, spesso facendo affidamento, in ordine alla solidità della loro preparazione, proprio al titolo, quello con valore legale di cui discutiamo.
Si ringrazia, innanzitutto la Commissione e per essa il suo Presidente per l'opportunità offerta e coglie con favore l'iniziativa di sentire il parere delle organizzazioni della docenza universitaria, auspicando un loro più diretto coinvolgimento prima di effettuare scelte fondamentali sui temi dell'università.
Siamo un nuovo soggetto collettivo che nasce con lo scopo duplice di proporre un modello nuovo di università, che vada al di là delle istanze proprie della categoria (pur essendo un'aggregazione di categoria, quella dei professori associati, la più maltrattata dalle ultime riforme), e di dar voce a quella parte del mondo accademico che si impegna giornalmente per mantenere standard di livello internazionale pur in presenza di condizioni al contorno demotivanti e che ritiene importante riaprire quei canali di comunicazione con la società ed soprattutto col mondo politico che non sempre negli ultimi tempi ha dato dimostrazione di saper ascoltare, cogliere e valorizzare tutte le voci, la ricchezza culturale e la pluralità di posizioni del mondo accademico, nel compiere scelte politiche relative all’ Università.
Premessa
Detto ciò diamo senz'altro indugio risposta ai quesiti formulati dalla Commissione. Ci limiteremo a pochi lampi sugli otto quesiti raggruppati in cinque punti, riservandoci di fare pervenire alla commissione, in tempi ragionevolmente brevi, una nostra più articolata memoria.
Saltiamo anche le premesse generali perché il resoconto della audizioni e la documentazione informativa messe a disposizione dalla Commissione consente di dare per note le fonti che governano il “valore” del titolo di studio; si danno altresì per noti gli scritti principali (ex multis Cassese, Rubele) che hanno discusso il tema.
1. A parere della Vostra Organizzazione, nei concorsi pubblici, il riconoscimento del valore legale della laurea risulta effettivamente lo strumento più efficace per selezionare i soggetti più preparati?
La laurea – e più in generale il titolo di studio – non ha la funzione di “selezionare i soggetti più preparati” per l'accesso alla p.a., perché questo scopo è assolto dal pubblico concorso. Da questo punto di vista, la laurea rappresenta una certificazione di un percorso di studi compiuto con profitto, più o meno variabile, e – soprattutto – su obiettivi formativi omogenei e contenuti equivalenti , entro i vincoli stabiliti dalla legge.
La stessa considerazione può farsi, più in generale, per l'accesso alle professioni protette, al pubblico impiego non privatizzato: per es. in magistratura e nella carriera diplomatica, e, seppure entro certi limiti, per l'accesso alle qualifiche dirigenziali del lavoro pubblico contrattualizzato, poiché come è noto i cc.cc.nn.ll. consentono talvolta di prescindere dal titolo di studio.
Va notato che l’attuale sistema permette di coniugare una notevole flessibilità ed autonomia nella scelta dei contenuti specifici, in grado quindi di venire incontro ad esigenze specifiche di settori disciplinari o del territorio, con una certificazione di sostanziale equivalenza della formazione. L’ esistenza di tale certificazione, costituendo condizione necessaria per la partecipazione a concorsi pubblici, ma non sufficiente per la selezione dei soggetti più preparati, costituisce una garanzia ed anche uno strumento efficiente di preselezione senza nulla togliere alla fase di selezione vera e propria.
La formulazione del quesito contiene in sé una risposta che deve per forza essere negativa, ma nel senso di non essere per nulla favorevoli alla tesi abolizionista.
Più in generale, ha senso mantenere il valore legale della laurea nel mercato del lavoro?
Nel mercato del lavoro la laurea non ha mai avuto valore legale, sia per la nota irrilevanza della qualifica soggettiva, come tra i giuslavoristi si usa chiamare i titoli professionali in generale, (salvo i casi previsti dalla legge a presidio di interessi pubblici: si pensi alle qualifiche di direttore tecnico di imprese provate), sia per l'impossibilità di imporre a un privato cittadino limitazioni sì forti della sua autonomia contrattuale, salvo il caso – ovviamente – della discriminazione turpe.
Cosicché il problema rimane confinato l'accesso all'esame di abilitazione per le professioni protette e l'accesso alla p.a.
Quali altri valori legali della laurea la Vostra Organizzazione riscontra nel nostro ordinamento?
Di valore legale si può parlare in ambito scolastico ed extrascolastico. Se ne individuano due aspetti, a nostro avviso da mantenere. Il primo è proprio dell'ambito scolastico ed è quello che il regolamento studenti del 1933 definisce “valore accademico”. Consiste nella certificazione necessaria per passare da un grado all'altro e da un ordine all'altro. Si tratta di una sistema che – pur attenuato nell'ambito dell'autonomia universitaria – consente ed agevola la mobilità tra sedi e corsi. Esso è presente in tutti gli ordinamenti, anche in quelli nei quali si assume -erroneamente – l'assenza di valore legale. Esso è certamente da mantenere se non si vuole generare una pericolosa autarchia di ogni istituzione di istruzione e innescare una sequela di verifiche individuali delle conoscenze di ogni studente che intenda modificare o proseguire altrove il proprio percorso di studi. Va anche ricordato che questo aspetto permette un’ enorme semplificazione nel riconoscimento dei percorsi formativi in ambito europeo e l’ abolizione del valore legale della laurea comporterebbe problemi non da poco per mantenere la compatibilità con lo Spazio Europeo dell’ Istruzione Superiore.
Il secondo aspetto appartiene all'ambito extrascolastico e come detto riguarda essenzialmente l'accesso alle professioni e alla p.a. Del suo operare si è detto, qui si aggiunge che esso è fondamentale strumento di eguaglianza, sebbene allo stato ancora prevalentemente formale, e come tale deve a nostro avviso essere mantenuto. Su come anzi possa essere migliorato diremo più avanti.
2. A parere della Vostra Organizzazione, quali implicazioni potrebbero esserci nel mondo del
lavoro con l'abolizione del valore legale della laurea?
Si aggraverebbe la segmentazione del mercato del lavoro tra aree economicamente svantaggiate aree più ricche del paese; creando barriere all'ingresso del mercato del lavoro delle professioni e di quello pubblico, che in Italia ha dimensioni ragguardevoli.
Esso sarebbe lungi dall'innescare una concorrenza tra atenei, effetto impossibile da realizzare con tale strumento in un sistema di istruzione e formazione come quello italiano che si presenta pieno di distorsioni e di disuguaglianze.
Al riguardo, si rileva che già da ora, la congettura della concorrenza sembra supporre che le università in competizione stiano tutte su un medesimo mercato.
Il giovane si diploma e decide che l'università alpha è pessima e non offre sbocchi, dunque, si iscrive all'università beta, che invece è accreditata di chiara fama, con ciò innescando -si dice - una corsa al miglioramento dell'università alpha.
La congettura oblitera gli immani ostacoli alla mobilità studentesca esistenti nel nostro Paese.
Il problema di uno studente di Reggio Calabria che volesse iscriversi, poniamo il caso, a Milano a Roma o a Torino, non è dato tanto dalle tasse universitarie (che in presenza di qualità in astratto giustificherebbero, si dice, ma non si condivide, la spesa), ma dalla necessità di dovere gravare sulla sua famiglia per le spese di mantenimento (cioè degli studi nella loro interezza) in una città lontana; città in cui il costo degli alloggi e in generale dellavita è elevatissimo. È strano che, invece di guardare ai c.d. paesi anglosassoni affetto diversi dal nostro, non si guardi alla Germania in cui, non solo il titolo ha valore legale, ma i costi di mantenimento, addirittura nella sua capitale, sono inferiori a quelli di una città italiana di provincia, oltre all’esistenza di un sistema di sussidi da fare impallidire ogni confronto con il nostro.
Ai guasti già indicati, abolendo il valore legale del titolo di studio, si rischia di aggiungere quello della discriminazione territoriale, perché una Regione, una Provincia, un Comune potrebbero ben accettare solo laureati provenienti dalla stessa Regione, Provincia, Comune.
Siamo ben consapevoli che vi è una parte politica che guarda con favore proprio a questo aspetto. Ma questa è pura miopia, nel caso del sistema universitario. A fronte di politiche di altri paesi che incentivano l’ immigrazione intellettuale, qualsiasi possibile ostacolo alla mobilità interna dei laureati suona come un atto di protezionismo fuori tempo massimo in grado di favorire solo il peggiore provincialismo. Traiamo, proprio dalle argomentazioni per dir così a favore della “territorializzazione” degli studi e dell'occupazione, la migliore conferma della necessità di mantenere il valore legale e della dannosità e inutilità della sua abolizione.
Inutile abolizione, perché se le lauree, uguali nella forma, fossero realmente così diverse nella sostanza, non ci sarebbe bisogno di abolirne il valore legale unificante per ottenere l'effetto selettivo.
Si osservi che se il male venisse dal valore legale non si spiegherebbe come i laureati italiani, specialmente quelli meridionali, cioè delle università che si additano a più scarso livello, trovano occupazione all'estero (mentre noi non importiamo laureati); oppure trovano occupazione in territori del Paese in cui hanno sede le università più blasonate, riuscendo dunque a fare concorrenza propri a quei laureati dei quali si presume la coincidenza della forma con la sostanza. Ciò accade sia nell'occupazione privata, sia nella p.a., sia nelle professioni; e allo stesso tempo i laureati degli atenei di c.d. eccellenza non si trasferiscono nella aree delle università meno qualificanti, dove invece avrebbero – in teoria – buon gioco per minore concorrenza.
In definitiva, l'abolizione in discussione servirebbe solo a acuire le discriminazioni territoriali già presenti. E da lì passare alle discriminazioni per formazione politica, religiosa et coetera il passo è breve.
Del resto, se pure si dimostrasse, ma finora nessuno c'è riuscito, che sia il “valore legale della certificazione” un ostacolo al funzionamento del mercato, il discorso dovrebbe essere spostato alle “certificazioni” che effettivamente danno accesso al mercato, e cioè alle abilitazioni professionali, non alle lauree che anzi pre-selezionano i soggetti che partecipano all'abilitazione. E talune abilitazioni, così come concepite, sì che sono di ostacolo allacompetizione. È ben vero che la Costituzione le prevede, ma la costituzione non impedisce alla legge di attribuire valore abilitante ai percorsi di studio che abbiano certe caratteristiche.
Il che sarebbe a dire che “il valore legale del titolo di studio”, per garantire concorrenza leale, deve essere rafforzato e non abolito.
Del resto, in qualsiasi sistema (USA inclusi) una qualche misura di garanzia a priori sul soddisfacimento di certi criteri formativi è prevista. Che si chiami laurearsi presso università accreditate o valore legale non fa differenza dal punto di vista del mercato del lavoro. La fa dal punto di vista della possibilità di creare un sottobosco incontrollato di entità che rilasciano titoli "spazzatura". Fenomeno diffusissimo negli USA e quasi inesistente da noi a livello universitario.
3. Qual è la posizione della Vostra Organizzazione rispetto ad una possibile abolizione del valore legale della laurea e all'introduzione nel nostro sistema di organismi di "accreditamento" dei corsi di studio universitari che, come quelli anglosassoni, sarebbero costituiti da esperti del settore, capaci di valutarne la qualità e l'efficienza?
Preliminarmente si osserva che parlare di "sistema anglosassone" tout court è improprio: il sistema inglese e quello americano non sono equivalenti (come risulta per altro evidente già alla lettura della documentazione informativa messa a disposizione sul sito del Senato).
L'accreditamento nel sistema italiano esiste già: lo svolge il MIUR. Se si pensa che funzioni male si cerchino al MIUR le responsabilità e gli errori.
La rispondenza della preparazione agli standard del mercato può anche tener conto di un punto di vista "esterno" all' accademia. Ma questo può essere compito di un' attenta ridefinizione delle politiche di valutazione dell' ANVUR. Pensare che la soluzione possa essere nel "libero mercato" è velleitario. Anche dove sembra che sia così (USA) in realtà ci si basa su una prassi ed una tradizione di lunga data che non possono essere trapiantate, da sé sole, nel sistema italiano semplicemente abolendo il valore legale della laurea.
Dunque, in funzione della risposta al quesito 2 è evidente che la nostra organizzazione non reputa incompatibili tra loro il mantenimento del valore legale del titolo di studio, che anzi con forza auspica, e un sistema di “verifica e controllo dei requisiti di qualità” quali presupposti per poter rilasciare il titolo. Detto in altri termini si può prevedere di attribuire valore legale non in modo automatico, una volta per sempre, ma solo ai titoli di studio rilasciati da università che abbiamo e mantengano requisiti strutturali di qualità, ma il titolo deve avere lo stesso valore da Brunico e Capo Passero senza graduazioni.
Ciò su cui la nostra organizzazione è in forte dissenso è l’ idea di “accreditamento affidato a esperti del settore, capaci di valutarne la qualità e l'efficienza”.
Si osserva quanto sia singolare ricorrere a "esperti del settore" cioè “non studiosi”, per valutare una comunità di studiosi, che di mestiere fanno propri i valutatori.
Noi possiamo essere d'accordo con un sistema di valutazione centrale, non con un accreditamento,
(piace ricordare che le cliniche degli orrori sono state “accreditate”) purché a valutare siano studiosi indipendenti (peer review) – a garanzia delle prerogative di cui agli art. 9 e 33 della Costituzione - e non “manager” di questa o quell'impresa, di massima interessata a un indirizzo piuttosto che a un altro o a dipendenti di improvvisate “società di consulenza”.
Non si oppone alcuna obiezione a che si valuti oggettivamente il possesso di requisiti di qualità, definiti in modo condiviso, stabile e resi noti con considerevole anticipo rispetto alla valutazione.
Ove, invece si ritenesse di istituire un sistema di accreditamento di "esperti del settore" diversi dai docenti degli atenei significherebbe espropriare in modo ingiustificato e offensivo un'intera categoria della sua dignità professionale.
Secondo la Vostra Organizzazione, tale sistema potrebbe garantire una preparazione più rispondente agli standard del mercato?
Spostare l'attenzione formativo-professionalizzante su un sistema di c.d. master, che alla fine del loro percorso immettano sul mercato del lavoro, delle professioni, dell'impiego presso la p.a. (non si può escludere pure verso l'impiego privato, ma è irrilevante prevederlo), inglobando al loro interno il tirocinio o la pratica professionale. Meccanismi di incentivazione per una migliore comunicazione tra mondo produttivo e università potrebbero aiutare. Va però notato che l’analisi della maggiore o minore rispondenza della preparazione dei laureati agli standard del mercato andrebbe fatta in modo indipendente dalle posizioni delle associazioni produttive e in particolare da quelle confindustriali. Chi nel mondo accademico si confronta col mondo delle aziende, magari con un occhio anche al mercato europeo del lavoro, non ha la stessa percezione che traspare da certe posizioni pubbliche di Confindustria.
4. Che ruolo vorrebbero e potrebbero assumere i sindacati in un sistema di accreditamento come quello sopra descritto?
Non dovrebbero avere alcuna parte nella gestione del sistema. Anzi dovrebbero essere stabilite ferree incompatibilità tra gestori e sindacati, partiti politici, enti confessionali etc.. Il riferimento ai sindacati, di tutta evidenza, si rifà al sistema inglese e soprattutto americano; ma in quei sistemi giocano un forte ruolo le organizzazioni professionali che però non sono sovrapponibili come struttura, tradizione e missione ai nostri sindacati. Il loro controllo si svolge sull'accesso alla professione e come tale – ove lo si volesse importare nel nostro – dovrebbe essere riferito non al valore del titolo di studio, ma a quello dell'abilitazione professionale. Nel nostro sistema, invece, si reputano compatibili esclusivamente funzioni di controllo a livello di sistema.
Nei Master abilitanti prima ipotizzati, le organizzazioni professionali, ovvero la stessa p.a. possono avere un ruolo diretto. In tale ipotesi di potrebbe pensare a un accreditamento nazionale o locale.
5. A parere della Vostra Organizzazione, ci sono altri strumenti, oltre all'abolizione del valore legale della laurea, che consentirebbero di rendere l'offerta formativa universitaria più aderente alle esigenze di mercato?
Il quesito, nel suo complesso, considera l'istruzione universitaria alla stessa stregua di un corso di formazione professionale, che se non insegna da sé un mestiere è inutile che ci sia; si basa, inoltre, su presupposti impliciti, che però non necessariamente devono essere condivisi.
Essi sono: -che l'offerta formativa universitaria non è aderente alle esigenze di mercato; -che debba esserlo in massima misura; -che l'abolizione del valore legale della laurea sarebbe di per sé utile allo scopo; -che le esigenze del mercato siano conosciute, conoscibili, stabili e, in qualche misura, prevalenti su altri orientamenti strategici. La funzione dell'università è ben diversa ed è quella di riprodurre studiosi e formare classe dirigente, con funzione propulsiva della Società e non adattativa a questa. Massimamente in un sistema di Istruzione pubblica statale universale, quale si ricava dagli art 9 e 33 Cost., gli obiettivi dell'università incarnano quelli dello Stato, cioè, tanto per citare un autore indubbiamente liberista, Adam Smith, quello di orientare il mercato stimolando gli agenti a modernizzarsi.
A nostro avviso compito dell’Università non dovrebbe essere quello di adeguarsi al mercato del lavoro, come decenni di riformismo fallimentare, di destra e di sinistra, hanno vanamente preteso che facesse, ma di fornire nuove idée e persone in grado di averne. Non di fornire conoscenze precarie a un ciclo produttivo dominato dalla contingenza degli interessi aziendali e dalla programmazione a tre mesi. Se la ricerca e la didattica non si spingessero oltre l’utilità dell’oggi, non rifiutassero il “merito” dell’adattamento, non aprissero a nuovi percorsi “possibili” che solo in parte saranno destinati a realizzarsi, allora la nostra Università non svolgerebbe il ruolo che in tutto il mondo industrializzato è svolto da tale Istituzione.
Essendo evidente che per quanto detto non condividiamo né la filosofia del quesito né i presupposti impliciti di esso che e anzi sono considerati dei falsi presupposti, la nostra risposta al quesito deve intendersi data come se il quesito chiedesse solo: Che cosa consentirebbe di rendere una parte dell'offerta formativa universitaria più aderente alla domanda del mercato?
Al riguardo si ritiene sufficiente far funzionare la valutazione (cfr. ANVUR) stabilendo in sede di valutazione gli opportuni canali di feedback con i vari stakeholders esterni. Per l'individuazione dei quali va però tenuto presente che, oltre al mercato interno, esiste anche il mercato del lavoro all'estero che spesso ha una maggiore dinamica e lungimiranza di quello interno, tanto è vero che assume i nostri laureati, così come sono oggi, da dovunque provengano, spesso facendo affidamento, in ordine alla solidità della loro preparazione, proprio al titolo, quello con valore legale di cui discutiamo.
(prof. calogero massimo cammalleri, coordinatore nazionale p.t.)
CONPASS
http://www.professoriassociati.it
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